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Nel giro degli ultimi anni l’Italia è entrata nel numero di quei paesi d’immigrazione in cui le minoranze etniche d’origine straniera vengono percepite come uno dei maggiori problemi all’ordine del giorno. E si tratta di un problema talmente immediato da giungere sulle prime pagine di Repubblica e del Corriere. [//]
Basti pensare a tre episodi che hanno coinvolto diversi gruppi “non-autoctoni” nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Il primo è la rivolta cinese dell’aprile 2007, a Milano, quando il sindaco tentò di chiudere al traffico commerciale le strade del quartiere di via Sarpi. Il secondo, la cosiddetta “emergenza Rom”, scoperta in primavera e riconosciuta come tale da sollecitare misure straordinarie ancora in atto e il conseguente censimento. L’ultima, l’allarme razzismo anti-neri d’Italia seguito alle violenze di Castel Volturno dello scorso settembre .
La gestione delle comunità “non-autoctone”, ossia visibilmente diverse, richiama sì l’attenzione dei poteri pubblici e dei media, ma solo quando il problema della diversità si trasforma in tragedia della xenofobia. Richiama l’attenzione ma, purtroppo, non l’attira che a breve termine. Le cosiddette “politiche anti-discriminatorie”, parte del più ampio bacino delle politiche d’integrazione, non sono tra le priorità politiche che si sventolano sui giornali.
Eppure, nel campo dell’anti-discriminazione, le norme italiane esistono e non solo esistono da più tempo, ma sono anche ben più avanzate che in molti altri paesi. E’ dal 1998 che il Testo Unico sull’Immigrazione prevede che a occuparsi delle questioni di discriminazione etnica siano i livelli decentrati del potere pubblico, le regioni. Ed è chiaro che, in una materia sensibile come quella del contrasto al razzismo e della lotta alla discriminazione, sono le istituzioni di prossimità, quelle a contatto più diretto con la realtà locale, a trovarsi nelle condizioni migliori per proporre e portare avanti soluzioni condivise tra comunità residenti e nuovi gruppi minoritari.
Nel 2007, l’Italia è giunta ad avere – tra tutti i paesi dell’OCSE – il tasso di ricambio della popolazione in cui le comunità immigrate contribuiscono per la più ampia porzione al ringiovanimento della società. Che cosa stiamo facendo per trarre vantaggio da questa situazione senza che la crescente diversità della popolazione diventi o rimanga percepita soltanto come un problema? Il Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 che istituiva centri regionali di lotta alle discriminazioni è stato attuato per la prima volta da una regione soltanto nove anni dopo. L’Emilia Romagna ha finalmente dato luce al suo centro regionale nel 2007, prima tra le regioni italiane, ma comunque con grande ritardo sulla tabella di marcia. In altre – Lazio, Toscana – il centro è in fieri da anni, ma non ha ancora visto la luce.
Quando in un quartiere il 30% degli abitanti ha la pelle di colore diverso da quello dei residenti locali e nelle classi elementari il 70% degli alunni è d’origine straniera, dieci anni di ponderazione amministrativa sono un’eternità. Alcune realtà locali italiane hanno saputo organizzarsi da sole e hanno creato i loro centri di studio, consiglio, ascolto e mediazione per le questioni di discriminazione etnica, ma rimangono una goccia nel mare. Pistoia e Bolzano sono gli esempi più conosciuti e più “maturi” di questo modello.
Il centro anti-discriminazione di Pistoia è nato nel 2003 ed è un organismo “multi-ground”, nel senso che non si occupa solo di discriminazione etnica, ma anche di molteplici cause di discriminazione quali cittadinanza, appartenenza a una minoranza nazionale, genere, orientamento sessuale, età, lingua, religione, ceto sociale, condizioni fisiche, convinzioni personali. Attivato tramite fondi regionali (progetto “Immigra”), il centro svolge le attività tipiche di quelli che fuori dall’Italia sono spesso definiti “equality bodies”. Grazie al suo front office offre una consulenza volta alla prima assistenza, all’acquisizione e al monitoraggio dei casi di discriminazione, allo studio del fenomeno, alla predisposizione di conseguenti azioni d’intervento e di tutela legale. Il centro si è anche mosso per sensibilizzare le altre istituzioni locali e le associazioni presenti nella provincia, ossia ha acquisito il doppio volto di centro di raccolta delle segnalazioni di atti discriminatori e organismo di promozione dell’uguaglianza. Queste sue attività gli hanno valso, nel 2007, il premio “Dire e fare” per l’innovazione nella pubblica amministrazione. Nel corso del 2007, secondo il report pubblicato dal centro, questo ha preso in carico 41 casi di discriminazione oltre a 10 che già seguiva dagli anni pregressi. La maggior parte dell’utenza è rappresentata da stranieri (60% delle denunce reputate “casi pertinenti” di discriminazione) vittime di discriminazioni su base etnica. Secondo il report, tuttavia, anche l’utenza italiana è in crescita rispetto agli anni passati. Un aspetto importante di questo centro multi-ground è la possibilità di occuparsi e mettere in relazione cause diverse – in gergo “intersezionali”- di discriminazione, quali ad esempio l’origine e l’orientamento sessuale, come è avvenuto in un caso difeso con successo nel 2008.
Il Centro di tutela contro le discriminazioni di Bolzano nasce nel 2005 all’interno dell’Osservatorio provinciale sulle immigrazioni, quindi è un organismo “single-ground” focalizzato su quelle cause di discriminazione che riguardano più direttamente gli immigrati (razza, etnia, religione, nazionalità). Finanziato dal Fondo sociale europeo (FSE), svolge funzioni essenzialmente simili a quelle del centro toscano, salvo che per la raccolta di segnalazioni e casi per i quali opera (essenzialmente) attraverso una hotline telefonica. Quali i problemi di cui centri del genere possono occuparsi? La scelta è ampia: dalla discriminazione “istituzionale” – il diniego di accesso a selezioni e concorsi pubblici o all’alloggio popolare e altri servizi socio-sanitari di base – alla negazione della stipula di contratti di locazione privata con cittadini stranieri o italiani ma “diversi”, alla disparità nelle condizioni di lavoro rispetto agli italiani, al rischio ghettizzazione nelle scuole o negli ospedali, al rifiuto dell’accesso a bar o discoteche.
Con una legge tra le più protettive e datate d’Europa (per una volta in senso positivo!) sulla non-discriminazione, molti italiani hanno (ri)scoperto il razzismo nel nostro paese con le violenze di Castel Volturno dell’autunno 2008. Eppure dal 2003 esiste una struttura centrale di lotta alle discriminazioni istituita in attuazione di una direttiva europea (2000/43/CE) che prescrive la creazione di organismi autonomi contro le discriminazioni etno-razziali, sul modello britannico-olandese (Racial Equality Commission, Dutch Equal Treatment Commission). L’ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali (UNAR), attivato presso la Presidenza del Consiglio, non è stato abile a farsi conoscere nel corso degli ultimi cinque anni, anche perché una struttura centralizzata e dotata di scarsi poteri non è forse la più adatta a difendere immigrati, in alcuni casi anche irregolari, o “neoitaliani” dagli atti xenofobi o discriminatori e a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Le “antenne territoriali” create da questo ufficio e gestite in subappalto dalle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), sebbene siano divenute più numerose nel corso degli anni, hanno acquisito scarsa visibilità rispetto alle strutture gestite direttamente a livello locale. E anche gli esempi esteri insegnano che se una struttura centrale di contrasto delle discriminazioni, che si occupi magari anche di orientamento sessuale, religione, genere e handicap, è necessaria, essa deve essere dotata d’indipendenza, risorse adeguate, poteri chiari e soprattutto di un’autorità morale riconosciuta, secondo gli esempi anglo-olandesi o quelli scandinavi degli ombudsmen specializzati.
Ciò nondimeno, anche le strutture locali devono esistere e essere dotate di risorse e competenze proprie. In fondo, anche le Consigliere di parità – per la parità di genere – sono state previste a livello decentrato. A Barcellona e New York, esistono degli organismi anti-discriminazione ad hoc a livello cittadino. In Francia, le Commissioni d’Accesso alla Cittadinanza (CODAC) dipendono dei dipartimenti e sono state istituite per legge nel 2000. Da quell’anno – non un decennio dopo – hanno iniziato a essere operative. Le CODAC possono, inoltre, contare sul sostegno di un’autorità centrale e forte di lotta alle discriminazioni, la HALDE (Haute Autorité de Lutte aux Discriminations et Promotion de l’Egalité). In Germania, dove pure manca un’autorità antidiscriminazione federale efficace, vari Länder e città-stato hanno aperto uffici statali o locali che operano spesso in simbiosi con le associazioni rappresentative dei gruppi a rischio di discriminazione.
In Italia, l’associazionismo che si occupa di questioni di discriminazione e d’integrazione (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI; Cooperazione e sviluppo paesi emergenti – COSPE; ARCI;IRES-CGIL; ANOLF; Istituto per il mediterraneo- IMED) è comunque riuscito a creare delle Reti d’iniziativa territoriale anti-discriminazione (RITA). La sua sola risorsa, però, sono stati i fondi comunitari ad hoc, che nel corso degli ultimi dieci anni sono cresciuti in volume quasi del 75%, dai 98 milioni di euro del 2000 ai 171 del 2007. A livello nazionale, quest’anno, il Fondo sociale per l’inclusione degli immigrati è stato abolito a seguito di una controversa sentenza della Corte Costituzionale, che riconosceva la competenza delle regioni in materia. Ma i soldi per il 2009 in che pacchetto della finanziaria si trovano?
E’ giunta l’ora che l’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali acquisisca un ruolo proprio e inizi a farsi sentire dai poteri pubblici, in particolare quando questi rischiano d’imbarcarsi in iniziative o proposte che semplicemente non sono ammissibili da un punto di vista del diritto internazionale umanitario o del diritto europeo della non-discriminazione. Inutile invocare, com’è stato fatto in Parlamento qualche mese fa, la creazione di un altro “Osservatorio del razzismo” quando questo già esiste a livello centrale. Dotiamo piuttosto l’UNAR di risorse e poteri adeguati. E questo vale non solo per proteggere le minoranze d’origine immigrata, ma anche per gli altri gruppi a rischio discriminazione: gay, handicappati, donne, minori, anziani.
Per quanto riguarda la gestione della diversità etno-razziale a livello decentrato, invece che seguire la sola strada della securitization (risposta autoritaria al rischio sicurezza) dotando i sindaci di più ampi poteri d’emergenza, è auspicabile che si segua anche la strada dell’educazione alla tolleranza e che le regioni e le province si muovano per operare in quei settori di competenza che sono stati loro affidati, come l’inclusione sociale. Replicando, magari, l’esempio dalle due – uniche!! – province che hanno pensato che la diversità etnica, da vicino, si vede meglio. E si fa anche tollerare meglio.