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In vista delle elezioni europee del 2009 il Parlamento italiano ha la possibilità di modificare la relativa legge elettorale per rimediare ad una serie di carenze strutturali e preparare al tempo stesso gli eurodeputati italiani alle sfide della nuova legislatura. C’è, infatti, un problema nella presenza italiana al Parlamento europeo (PE) e gli indicatori sono molteplici. [//]

Primo, le regioni italiane sono mal rappresentate. Nelle due ultime legislature, ad esempio, non è risultato eletto alcun rappresentante sardo.
Secondo, i deputati italiani, in media sessantenni, sono sette anni più anziani dei colleghi polacchi, cinque dei tedeschi, tre degli spagnoli e degli inglesi, due dei francesi. Contribuisce a questo divario la prassi, più diffusa da noi che altrove, di considerare il mandato europeo come una parentesi per politici momentaneamente esclusi da cariche nazionali e/o in attesa di riconquistarle, come dimostrato dal punto successivo.
Terzo, il mandato di un eurodeputato italiano dura in media due anni (invece dei cinque previsti), il che non solo non aiuta alla creazione di una futura classe dirigente di respiro europeo ma pregiudica, nel presente, anche la difesa dell’interesse nazionale.
Quarto, soltanto un sesto dei nostri deputati sono donne, contro un terzo nell’intero PE.
Last but not least: il contingente italiano è poco efficace. Dal 1979 (data delle prime elezioni dirette) ad oggi, l’Italia, al contrario di tutti gli altri “grandi paesi europei”, non ha espresso alcun Presidente: Germania, Francia e Spagna ne hanno eletti tre ciascuno. Lo stesso divario emerge dall’assegnazione delle cariche interne: se paragonata ai soli due “grandi paesi” che eleggono lo stesso numero di deputati (Francia e Gran Bretagna), l’Italia risulta esprimere il minor numero di presidenti di commissione, presidenti di gruppo e membri dell’ufficio di presidenza.
Le cause di questa situazione sono molteplici, e le riflessioni che seguono non possono tener conto di tutti i fattori politici che concorrono a determinarla. Vi sono però dei limiti strutturali evidenti nel modo in cui la delegazione italiana viene selezionata ed opera all’interno dell’assemblea di Strasburgo. Ne passo in rassegna tre.
In primo luogo, una rappresentanza adeguata di tutti i territori manca per via di un sistema elettorale semplicemente mal congegnato. Al di là delle cinque circoscrizioni elettorali, il sistema consta di un meccanismo di allocazione biproporzionale a livello nazionale. Il sistema si propone di rispettare, a livello nazionale, due criteri proporzionali che difficilmente possono essere soddisfatti contemporaneamente: ogni partito deve avere una percentuale di seggi proporzionale alla sua percentuale di voti, ed ogni territorio deve avere un numero di seggi proporzionale alle sue dimensioni. L’attuale legge elettorale europea non prevede alcun correttivo a favore dell’assegnazione territoriale: tra i due criteri, dunque, privilegia il rispetto del risultato elettorale nazionale. Per cui, al momento dell’assegnazione, alcuni seggi “migrano” verso circoscrizioni più popolose e/o in cui più alta è stata la partecipazione al voto. Di qui il paradosso “sardo” di cui sopra. Lo stesso, peraltro, accade regolarmente anche ad altre regioni, come l’Umbria.
In secondo luogo, giovani – ed in particolare giovani donne – mancano per cause più complesse: vale dunque la pena di fare un passo indietro. Le elezioni europee sono vissute nel nostro paese come un appuntamento squisitamente nazionale. Che le elezioni europee, così come quelle amministrative, abbiano carattere di “elezioni di secondo ordine” è cosa risaputa. Ma le elezioni europee stanno diventando esclusivamente un test sulla performance del governo in carica ed un’occasione di sperimentazione in vista delle elezioni politiche successive. Ne è testimonianza palese il coinvolgimento diretto di tutti i leader politici nazionali come capolista in tutte le circoscrizioni elettorali nella tornata del 2004. Le campagne elettorali europee sono così incentrate su tematiche nazionali, senza che vi sia, da parte dei nostri partiti, il minimo coordinamento programmatico con le attività delle altre grandi famiglie politiche europee. Anche il risultato è letto ed interpretato per le sue conseguenze nella vita politica nazionale. Il contingente di eurodeputati italiani, non a caso, subisce emorragie ingentissime ad ogni tornata elettorale nazionale e se un certo ricambio è proprio anche di altri paesi, la magnitudine del fenomeno italiano non ha pari: dal 2004 ad oggi, il 41% dei deputati italiani ha abbandonato il proprio seggio, contro il 5% dei tedeschi e degli inglesi, il 10% dei francesi, l’11% dei polacchi ed il 13% degli spagnoli. Proprio per questa continuità tra rappresentanza nazionale ed europea, l’Italia esporta a Strasburgo anche le sclerotizzazioni deteriori del suo sistema partitico compresa, dunque, una rappresentanza essenzialmente maschile e anagraficamente (oltre che politicamente) attempata.
Concorre ad aggravare questo handicap il fatto che il sistema attuale prevede cinque circoscrizioni elettorali di svariati milioni di elettori per l’elezione, mediamente, di poco più di una decina di parlamentari. I costi associati ad una campagna elettorale interregionale (con voto di preferenza) fanno sì che la scelta dei partiti si concentri su due tipi di candidati: da un lato, i politici di lungo corso o comunque sostenuti dal partito che, rispettivamente, hanno già una visibilità estesa o possono contare sulle casse del partito per finanziare la propria campagna; dall’altro, esponenti del mondo dello spettacolo o dello sport che hanno avuto occasione di farsi conoscere in altri ambiti e che sfruttano la propria popolarità/riconoscibilità nel contesto delle elezioni europee. La conseguenza è che l’Italia non invia a Strasburgo una classe politica con una visione o un’ambizione europea, consapevole cioè delle sfide e dei meccanismi decisionali dell’Unione e intenzionata ad investirvi la propria carriera politica.
Gli europarlamentari italiani, laddove sono politici, sono generalmente all’inizio o alla fine della loro carriera politica, e concepiscono il mandato europeo come una fase iniziale o conclusiva del loro cursus politico nazionale. Laddove, invece, sono degli outsider, generalmente non durano più di una legislatura, facendo così venir meno le premesse per la creazione di una duratura classe politica europea. Tanto meno, poi, questa classe politica europea riuscirebbe ad essere rappresentativa della diversità territoriale italiana, viste le storture già descritte nella rappresentanza delle nostre regioni.
Il terzo limite – e probabilmente più grave – è la dispersione dei nostri deputati tra i vari gruppi politici esistenti. Soltanto la metà dei 78 deputati italiani fa parte dei due gruppi principali (gruppo popolare e gruppo socialista): un valore molto più basso rispetto agli altri “grandi paesi”. La dispersione ha un prezzo altissimo in termini di influenza, soprattutto tenendo presenti i criteri per l’assegnazione delle cariche ai gruppi e, al loro interno, alle singole delegazioni nazionali.
Le assegnazioni avvengono su base proporzionale, secondo il metodo D’Hondt, che è per l’appunto una formula matematica impiegata per l’attribuzione dei seggi (in questo caso cariche) ai partiti (gruppi, delegazioni nazionali) nei sistemi proporzionali. Al di là dei tecnicismi applicativi, il metodo D’Hondt ha una caratteristica accertata: avvantaggia i partiti (gruppi) più grandi e penalizza i più piccoli. A livello europeo questa caratteristica è ancora più significativa (e gli effetti disproporzionali amplificati) perché il metodo D’Hondt viene in realtà applicato due volte: una prima volta per attribuire ai gruppi il numero di cariche spettanti loro in ragione del numero di membri ed una seconda volta per ripartire le cariche, all’interno di ciascun gruppo, tra le varie delegazioni nazionali (sempre in ragione delle rispettive dimensioni). Vengono dunque premiati, in prima battuta, i gruppi più grandi, e, in seconda, le delegazioni nazionali più numerose all’interno dei gruppi più grandi. Il che significa anche che delegazioni nazionali di peso identico o simile possono ottenere “premi” molto diversi a seconda di come ripartiscono i propri membri all’interno dei vari gruppi del PE.
A sua volta, la dispersione italiana è figlia di un sistema elettorale che consente anche a formazioni con lo 0,5% dei consensi di eleggere parlamentari europei. Formazioni che non riuscivano ad ottenere un seggio nel Parlamento nazionale (almeno nel contesto del Mattarellum) riescono invece ad essere rappresentate al Parlamento europeo. Non solo vi sono eurodeputati italiani in tutti i gruppi politici europei (compresi tra i non-iscritti), ma vi sono spesso più partiti italiani all’interno dello stesso gruppo politico, il che mina anche la nostra credibilità come sistema partitico.
I rimedi vanno ricercati, tra le altre cose, in un sistema elettorale che scoraggi l’accesso al PE per le formazioni più piccole e meno inserite nell’arena europea e favorisca invece i partiti più grandi e collegati alle grandi famiglie politiche europee. E’ chiaro che la transizione del sistema partitico nazionale verso un vero assetto bipolare (supportato da un adeguato sistema elettorale) aiuterebbe questa evoluzione. Allo stesso tempo, il sistema elettorale deve incoraggiare la creazione di una nuova classe dirigente europea, grazie in particolare all’elezione di più donne e di volti nuovi, e ripristinare una rappresentanza equa di tutti i territori.
In particolare, si dovrebbe ridisegnare le circoscrizioni elettorali e modificare il metodo di assegnazione dei seggi.
Si tratta di intervenire su un elemento del sistema elettorale che consente di affrontare due questioni fondamentali: selezionare il tipo di rappresentanza e condizionare il collegamento effettivo tra elettori ed eletti. I due obiettivi che si perseguono sono incoraggiare la concentrazione della rappresentanza (cioè far si che soltanto un numero ridotto di partiti ottenga seggi nel PE) e rafforzare il collegamento tra elettori ed eletti. Ridurre le dimensioni delle circoscrizioni è un’operazione che consente di raggiungere (o almeno avvicinare) entrambi gli obiettivi.
Come procedere? Innanzitutto occorre dividere il territorio nazionale in 21 circoscrizioni elettorali (19 regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano); poi bisogna stabilire che in ciascuna circoscrizione risulta eletto almeno un deputato e che gli altri seggi sono assegnati alle circoscrizioni in proporzione alla loro popolazione. Infine, è necessario optare per un metodo di assegnazione dei seggi a livello circoscrizionale (quindi regionale/provinciale), anziché nazionale.
Oltre a rispettare maggiormente la diversità territoriale del nostro paese, questo accorgimento, creando di fatto una soglia di sbarramento piuttosto elevata, ridurrebbe sensibilmente la frammentazione partitica della delegazione italiana al PE, senza tuttavia pregiudicare la natura proporzionale del sistema elettorale, come richiesto a livello europeo.
Un intervento di questo tipo farebbe infine cadere le critiche (condivisibili) rivolte al sistema attualmente in vigore, laddove associa il voto di preferenza a circoscrizioni sterminate, facendo così lievitare i costi delle campagne elettorali e vanificando la vera raison d’être del voto di preferenza, cioè collegare elettori ed eletti. La soluzione non è abbandonare il voto di preferenza tout court ma inserirlo in un contesto compatibile con costi elettorali ragionevoli e tale da rendere praticabile il rapporto tra elettore ed eletto. Tra l’altro, il ricorso al voto di preferenza è esplicitamente incoraggiato dallo stesso PE, la cui commissione Affari costituzionali, nel gennaio 2008, lo inserisce tra le misure destinate a renderlo più coeso, legittimo, efficiente e rappresentativo.
Bisogna anche vietare le candidature multiple. Si tratta, semplicemente, di impedire che la stessa persona possa essere simultaneamente candidata in più circoscrizioni, come avviene ora. E’ un problema presente anche nelle elezioni politiche nazionali e, non a caso, preso di mira dai quesiti referendari (rinviati al 2009).
Si devono poi prevedere ulteriori cause di ineleggibilità. Non solo per favorire la candidatura e l’elezione di volti nuovi, ma anche per assicurare la necessaria continuità del loro impegno europeo si propone di prevedere delle cause di ineleggibilità per chi, ad esempio, detiene incarichi di governo (ministro o sottosegretario) o altre cariche pubbliche (membro di una delle due Camere, sindaco di una grande città, etc.). Per poter partecipare alle elezioni europee, dunque, ci si deve dimettere dalla carica che si detiene.
E’ ugualmente necessario prevedere un obbligo di quote rosa. Ogni partito/coalizione deve rispettare questi due imperativi: il 50 % dei capolista circoscrizionali deve essere costituito da donne. All’interno di ciascuna lista in ciascuna circoscrizione, almeno il 50% dei candidati deve essere costituito da donne. Ovviamente, la presenza del voto di preferenza non predetermina l’elezione di una metà di donne, ma sicuramente riequilibra le condizioni di partenza.
Infine, si deve richiedere un collegamento preventivo delle liste partecipanti al voto con un partito politico a livello europeo, così da facilitare il loro inserimento all’interno di una delle grandi famiglie politiche europee.
* Le opinioni dell’autore sono espresse a titolo personale e non vincolano il Consiglio dell’Unione europea