fbpx
Da oltre un secolo, le cooperative di credito svolgono in tutta Europa un ruolo fondamentale nello sviluppo delle comunità locali. Negli ultimi anni in Italia, nel tentativo di trovare risposte ai processi di consolidamento,[//] il credito cooperativo si è progressivamente allontanato dal proprio modello originario, per perseguire logiche proprie delle banche commerciali. Si tratta tuttavia di una strategia poco lungimirante poiché mette in pericolo la sopravvivenza delle cooperative di credito nel mercato e spinge il legislatore ad intervenire con correzioni repressive. Piuttosto la risposta va ricercata nel ritorno alle origini. Internamente, applicando in maniera efficace ed efficiente il concetto di “mutualità”; esternamente, promuovendo una maggiore presenza del sistema sulla scena europea, per valorizzare tutto ciò che, oltre confine, può costituire fonte di ricchezza e sviluppo per il proprio territorio.
Pietro Cafaro, a conclusione di una vibrante e ricca ricostruzione storica su un secolo di credito cooperativo italiano scriveva: “ (…) vi era la certezza che ovunque in Europa, allora e nei decenni successivi, fino anche vi sarebbe stata capacità di risparmio e bisogno di credito, avrebbe conquistato ampi spazi di mercato la piccola impresa capace di concretizzare l’antica utopia di una azione solidale per se stessa efficiente”.[1] Erano gli anni di Leone Wollemborg[2], la fine di un ottocento europeo messo in ginocchio da una crisi agraria che aveva avuto tra le sue conseguenze il fiorente commercio degli usurai. Frierich Wilhelm Raiffeisen, il borgomastro renano che nel 1852 aveva fondato la prima cassa rurale a servizio dei ceti più poveri, era già diventato un punto di riferimento oltre confine, imprimendo una definitiva origine mitteleuropea a quello che in pochi anni sarebbe diventato un modello d’impresa filantropica diffuso in tutta Europa.[3]
L’esperienza tedesca aveva trasmesso la pratica di aziende di piccole dimensioni, incentrate su una solida democrazia interna – una testa un voto -, dotate di mezzi propri ristretti ma impegnate nel continuo accumulo patrimoniale degli utili conseguiti, predisposte al lavoro in rete e caratterizzate da una presenza capillare in ambiti territoriali spesso periferici rispetto alle consuete vie di scambio dei mercati finanziari. Era la scoperta di una forma di auto-aiuto inedita in ambito finanziario, una solidarietà che poteva essere declinata con le regole proprie dell’efficienza aziendale, dove i due termini trovavano nel loro stretto binomio una “forza per certi versi rivoluzionaria, capace soprattutto nei difficili momenti di congiuntura avversa di assumere i tratti dello strumento ottimale per risolvere i problemi economici e sociali laddove il mercato era fallito”.[4] A distanza di un secolo, in una società italiana profondamente mutuata e in apparente assenza di quegli accadimenti storici che avevano permesso la proliferazione delle casse di credito, è ancora possibile immaginare uno spazio economico per questa forma di solidarietà efficiente?
Attualmente, con un’incidenza del 55% sul totale degli istituti, le banche di credito cooperativo costituiscono ancora il segmento preponderante dell’universo bancario italiano, soprattutto in quei contesti territoriali che per caratteristiche socio-economiche vengono disertati da altre tipologie di banche: dal Sud Italia alle aspre zone montagnose del Trentino Alto Adige, un microcosmo fatto di piccole imprese a conduzione familiare, agricoltori, artigiani, giovani, famiglie.[5]
Tuttavia, l’evoluzione dimensionale e il mutuato contesto storico hanno fatto si che qualche elemento andasse perduto. Alcuni tasselli valoriali che nel passato avevano determinato l’identità delle Banche di Credito Cooperativo (BCC) oggi, nel relativo benessere della società, rischiano di scolorire di fronte a tendenze economiche giudicate più “al passo coi tempi”. Nella scelta, consapevole o meno, di rincorrere il modello bancario dominante, il credito cooperativo ha cercato col tempo di perfezionare l’attività bancaria a scapito di un altro versante essenziale, quello cooperativo, che più di ogni altro conferisce essenza e valore all’operato delle BCC. Il rischio di questa tendenza è l’allentarsi del principio mutualistico – ovvero la perdita di identità – con contraccolpi pericolosi non solo sull’efficacia strategica delle strategie aziendali, ma anche sui rapporti con lo Stato e con le Autorità Comunitarie.[6] Al tempo stesso, a livello interno, alcuni osservatori hanno richiamato l’attenzione su ulteriori elementi di debolezza da non sottovalutare: l’aumento indisciplinato dei costi degli amministratori; l’incapacità di mettere in atto quello slancio vocativo a fare sistema rinunciando quando necessario a spazi di autonomia nell’interesse complessivo di tutto il movimento; la rivalità interna e la sovranità individuale che a volte impediscono il raggiungimento di posizioni comuni anche negli elementi fondamentali. [7]
Alla luce delle critiche e delle inchieste in corso, appare evidente che trascurare la natura cooperativa per inseguire logiche aziendali da S.p.A. può rivelarsi un passo falso nel lungo periodo, in quanto allontana in maniera miope le BCC da quegli elementi sociali, culturali e comunitari che ne costituiscono l’asset competitivo, il valore aggiunto rispetto alle altre forme bancarie. Una volta presa coscienza dei limiti, l’unica strada perseguibile è il recupero dell’identità cooperativa, un esercizio che equivale a saper innovare senza snaturarsi, puntando verso un’evoluzione su due livelli: (a) a livello interno, declinare in chiave moderna il principio di “mutualità senza fini di speculazione privata”, mettendo in atto politiche coerenti con la propria missione aziendale; (b) a livello esterno, lavorare al raggiungimento di una effettiva coesione del Credito Cooperativo, che si traduca, sia a livello locale che nazionale, in politiche di indirizzo comune. Tale approccio permetterebbe di rispondere con forza alle sfide delle grandi concentrazioni di mercato, e al tempo stesso di giocare un ruolo più incisivo sugli equilibri che animano le decisioni prese in sede Europea. L’applicazione coerente della mission delle BCC richiede investimenti consistenti in risorse umane e in tempo dedicato alla conoscenza delle comunità locale, oltre ad una certa inclinazione a lavorare in rete con gli enti territoriali, per intercettare bisogni di qualsiasi natura e tradurli in progetti di sviluppo.[8]Essere autenticamente banche del territorio può quindi rivelarsi un compito arduo e costoso. Eppure l’esperienza delle cooperative di credito in altri paesi europei, come il Regno Unito, ha dimostrato che la “demutualizzazione” non è un’alternativa auspicabile e che ci sono ottime ragioni per credere nella mutualità, anche nel settore finanziario.[9]
Spesso le piccole banche hanno performance migliori delle grandi, sia in termini di redditività che di crescita del portafoglio. Questo miglior risultato non sembra essere dovuto a momenti transitori – assestamento di altre banche in seguito a processi di concentrazione – ma piuttosto a elementi strutturali, quali il relationship lending: la scelta creditizia basata sulla conoscenza diretta dei propri clienti permette di tenere sotto controllo il livello di rischio, pur mantenendo buoni livelli di redditività.[10] Dunque, un elemento di forza delle BCC sembra risiedere nella prossimità geografica tra il centro di potere decisionale della banca ed il territorio nel quale opera, vicinanza che stabilisce un legame immediato tra i bisogni espressi localmente e le strategie attuate dalla banca per soddisfarli. Un indubbio vantaggio strategico delle piccole banche rispetto ai grandi gruppi.[11]
Tuttavia, il pieno recupero del principio di mutualità risponde a variabili che superano l’efficienza economica delle scelte aziendali. In un momento storico in cui le dinamiche sopranazionali assumono una rilevanza maggiore rispetto alle esigenze dei singoli territori, c’è bisogno di soggetti in grado di svolgere un’azione di stimolo e aggregazione delle forze presenti nelle comunità. In ragione della propria natura, le BCC possono giocare un ruolo di regia territoriale, scegliendo dove indirizzare le risorse, applicando criteri di eccellenza nella selezione delle proposte, partecipando attivamente con gli altri attori locali – profit e non – alla definizione di iniziative che favoriscano lo sviluppo dell’intero territorio. Le BCC hanno il peso economico, il prestigio istituzionale, le competenze tecniche e relazionali per generare idee, essere incubatrici di soluzioni, entrare nella realizzazione dei progetti – non da semplici finanziatori ma da partecipanti attivi – dando vita a reti ed alleanze finalizzate a promuovere le migliori esperienze locali. Eppure, anche se esistono molti esempi concreti di questo modo di operare, questi rimangono concentrati in seno a poche BCC. La scelta più comune rimane quella di operare con la stessa ottica di un banca tradizionale, per poi destinare parte degli utili ad azioni di beneficenza. Tuttavia questa strategia non crea valore aggiunto: qualsiasi banca è in grado di fare altrettanto, con risorse economiche superiori perché direttamente proporzionali alla dimensione.
Paradossalmente, non serve avere banche efficienti se non contribuiscono allo sviluppo locale. In questo senso il valore creato da una banca di credito cooperativo potrebbe essere misurato non solo nell’efficienza economica, ma anche nell’efficacia dell’azione complessiva nel territorio. Un indicatore complesso, che sia le autorità preposte alla vigilanza bancaria che le istituzioni pubbliche dovrebbero analizzare con cura e tenere in considerazione nella scelta delle politiche volte a favorire lo sviluppo nazionale. Nella consapevolezza che per continuare a contribuire allo sviluppo duraturo delle comunità locali le BCC devono essere in grado di presentarsi, più incisivamente ed efficacemente, come un sistema, nel 2005 il credito cooperativo ha adottato la “Carta della Coesione”.[12] Uno strumento indispensabile per accompagnare il rafforzamento della rete, ma di difficile declinazione nella pratica quotidiana, in quanto implica la rinuncia a spazi di autonomia nell’interesse complessivo di tutto il movimento. In tal senso, Federacasse – la Federazione Nazionale delle Banche di Credito Cooperativo – svolge una funzione di rappresentanza che si muove sul filo di un equilibrio complesso: deve costruire l’armonia esterna razionalizzando le dinamiche interne, senza troppo semplificarle o banalizzarle, con il rischio che spesso la necessità di compromesso si traduca di fatto in un sostanziale immobilismo. In tal modo, le periferie più dinamiche e flessibili prevalgono su un centro associativo spesso cauto nel recepire gli impulsi e nel tradurli in momenti d’azione.[13]
Paradossalmente, la capacità di aggregazione attorno a iniziative puntuali – dimostrata con successo nell’ambito dei progetti di cooperazione internazionale a favore dell’Ecuador – è più difficile da replicare all’interno. Quando si è trattato di appoggiare la nascita di una rete di casse rurali a servizio della popolazione più povera dell’Ecuador, le BCC italiane hanno dimostrando di saper agire in rete, seguendo l’esempio virtuoso delle consorelle più attive, per trasmettere al paese latinoamericano la propria esperienza centenaria di banche locali. Nello stesso contesto, la collaborazione avviata dal credito cooperativo italiano con l’Argentina ha spinto Buenos Aires ad approvare una riforma storica della legge sulle entità finanziarie, che favorisce la rinascita delle cooperative di credito locali – scomparse a causa delle leggi repressive della dittatura dei militari e mai ripristinate – citando ufficialmente il credito cooperativo italiano quale modello giuridico e valoriale di riferimento.[14]
In questo complicato contesto, Federcasse deve dimostrare di riuscire ad armonizzare le diversità interne per poter proporre all’Europa una singola voce, che sia al tempo stesso l’essenza condivisa della coralità. Dal risultato di questo sforzo dipende la sopravvivenza dell’intero sistema. In questa ottica, la recente entrata in vigore dell’istituto della vigilanza cooperativa costituisce un’opportunità irripetibile per il sistema cooperativo italiano.
Ferma restando la vigilanza bancaria di competenza di Banca d’Italia, al revisore cooperativo – ruolo delegato agli organi di rappresentanza regionali, le Federlocali – spetta il compito di vigilare sul fatto che le BCC agiscano sempre “senza fini di speculazione privata” e con “carattere di mutualità”. La legge investe inoltre l’organo di vigilanza cooperativa di un ruolo di accompagnamento, per rendere la BCC “un mezzo efficace sia di democrazia economica, sia di sviluppo sostenibile dell’economia dei nostri Comuni”.[15] In tal senso la revisione cooperativa, se realizzata con rigorosità, costituisce una risposta importante alle accuse interne e alle osservazioni avanzate dalla Commissione Europea, in quanto diventa lo strumento “grazie al quale lo Stato non solo verifica se chi beneficia delle agevolazioni fiscali sia effettivamente meritevole di riceverle, ma potrebbe anche facilitare(si) la dimostrazione che tali agevolazioni non costituiscano aiuti di Stato in contrasto con il diritto comunitario.”[16] Il credito cooperativo italiano ha dunque tutte le carte per ambire ad uno spessore maggiore nelle cose internazionali che lo riguardano. A tal fine, deve essere capace di sistematizzare le diverse esperienze e tradurle in politiche unitarie e coerenti, capaci di influire sulla visione complessiva del credito cooperativo a livello internazionale. Non accontentandosi dell’esistenza di una struttura di leadership europea – ampiamente articolata in varie organizzazioni sopranazionali – ma aspirando piuttosto, con audacia e convinzione, ad una presenza nazionale in Europa. Solo in tal modo il credito cooperativo italiano sarà in grado di valorizzare tutto ciò che, dentro ed oltre i confini nazionali, può costituire fonte di ricchezza e sviluppo per il proprio territorio. In conclusione, la Commissione Europea, nella Comunicazione sulle Cooperative del 2004, ha riconosciuto che le cooperative sono un elemento indispensabile per la realizzazione degli obiettivi di Lisbona, in quanto rappresentano “un ottimo esempio di un’impresa in grado di perseguire contemporaneamente obiettivi imprenditoriali e sociali, in modo tale che gli uni e gli altri risultino reciprocamente rafforzati”.[17]
Nonostante questo importante riconoscimento, il settore cooperativo fa fatica ad affermarsi in Europa come un modello alternativo al sistema imprenditoriale dominante e tende ancora ad essere classificato come un’eccezione da correggere e controllare.[18] Nel caso del credito cooperativo italiano, la posta in gioco è molto alta e riguarda il futuro del principio di mutualità, in un contesto sociale e di mercato profondamente mutato rispetto ai presupposti originari. Uno studio svolto dall’Università Bicocca ha rilevato che sebbene tra il 1990 e il 2001 hanno avuto luogo più di 500 fusioni e acquisizioni tra banche, l’80% della loro attività rimane circoscritta all’interno dei confini nazionali. Data in generale la piccola dimensione delle imprese italiane, non esiste una “nicchia protetta” dove le BCC possono muoversi al riparo dalla concorrenza: le grandi banche nel nostro paese si trovano ad operare nello stesso mercato delle piccole.[19] A maggior ragione, se il campo d’azione è lo stesso, diverse e distintive devono essere le strategie d’azione.
Studi empirici hanno dimostrato che la crescita delle banche di credito cooperativo, in quanto basata su caratteristiche intrinseche, può continuare incontrastata anche in futuro, ma solo se le BCC saranno in grado di valorizzare e preservare gli elementi strategici che le rendono competitive. Da un lato, è quindi urgente far convergere le banche di credito cooperativo verso una visione condivisa del proprio ruolo di imprese “a responsabilità sociale”, riprendendo piena coscienza della propria diversità, non solo nelle strategie comuni di marketing ma nella quotidiana pratica aziendale. Al tempo stesso, gli organi di rappresentanza devono credere con più forza alla prassi del confronto costante con le esperienze migliori all’estero, perché la loro possibile “importazione” ed adattabilità alla situazione interna può costituire una fonte di innovazione e sviluppo per l’intero sistema.
Dalla scelta di percorrere o meno questo cammino dipenderà la sopravvivenza di un modello antico, che in tutto il mondo, a vario titolo, ha saputo esprimere con successo l’utopia concreta di un’impresa capace di essere efficiente, pur rispettando con responsabilità e coerenza il valore complesso della solidarietà. Sono passati 120 anni, ma la ricetta di sviluppo sottesa a questo modo di fare banca è ancora profondamente attuale, ancora capace di offrire un’alternativa lungimirante e credibile alle esigenze concrete delle nostre comunità.
___________________________________
[1] Cfr. Pietro Cafaro, “La solidarietà efficiente. Storia e prospettive del credito cooperativo in Italia (1883-2000), pag. 473, Ed Laterza, 2001
[2] Leone Wollemborg (1859 – 1932). La diretta conoscenza delle difficili condizioni di vita delle popolazioni contadine di Loreggia, il centro del padovano dove la famiglia possedeva vaste proprietà, lo indusse nel 1883 a fondare la prima cassa rurale italiana. Con il testo Unico in materia bancaria del 1993 (dl 385/1993) le casse rurali ed artigiane cambiano la loro denominazione in Banche di Credito Cooperativo.
[3] Cfr. F. Braumann, Un uomo vince la miseria, Roma 1968; Fornasari, M. e Zamagni, V., Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Firenze, Vallecchi, 1997; Fenoaltea, S. (2006),L’economia italiana dall’Unità alla Grande guerra, Laterza, Roma-Bari; Federico, G. (2003), «L’agricoltura italiana: successo o fallimento?», in P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, Vol. III. Industrie, mercati, istituzioni, 1. Le strutture dell’economia, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 99-136.
[4] Cfr. Pietro Cafaro, “La solidarietà efficiente. Storia e prospettive del credito cooperativo in Italia (1883-2000), pag. 5, Ed Laterza, 2001;
[5] In Italia a dicembre 2006 esistevano 793 istituti bancari di cui 436 banche di credito cooperativo (BCC). In Molise e Valle d’Aosta le BCC sono l’unica realtà bancaria esistente, mentre in Trentino Alto Adige rappresentano il 91% della rete bancaria regionale. In circa 530 comuni di tutto il territorio nazionale le BCC sono le uniche aziende bancarie presenti. Cfr. Unioncamere, Secondo Rapporto Sulle Imprese Cooperative, 2007
[6] Su richiesta della Corte di Cassazione Italiana, nell’agosto del 2006 i servizi alla concorrenza della Commissione Europea hanno richiesto al Governo italiano informazioni sulle misure di controllo varate dall’autorità incaricata della vigilanza bancaria per assicurare il rispetto dei requisiti di mutualità previsti per la concessione di sgravi fiscali a favore delle cooperative di credito. Il Trattato di Roma vieta in linea di principio come incompatibili con il mercato comune tutti gli aiuti di stato che rischiano di falsare la concorrenza intracomunitaria o favorire determinate imprese o settori (Art. 87-89 (92-94) CE; Art. 4 e 67 CECA
[7] Cfr. A. Spaggiari, Credito Cooperativo. Esperienza di frontiere i declino o solida prospettiva?, in “Credito Cooperativo”, marzo/aprile 2007
[8] Nel 1999 con l’introduzione della “Carta dei valori” e più recentemente, nel 2005, con l’introduzione in tutti gli statuti delle 439 BCC italiane dell’Articolo 2, viene definita la mission delle banche di credito cooperativo. L’Art. 2 Banche dello Statuto delle BCC prevede che: “la Società ha lo scopo di favorire i soci e gli appartenenti alle comunità locali nelle operazioni e nei servizi di banca, perseguendo il miglioramento delle condizioni morali, culturali ed economiche degli stessi e promuovendo lo sviluppo della cooperazione, l’educazione al risparmio e alla previdenza, nonché la coesione sociale e la crescita responsabile e sostenibile del territorio nel quale opera. La società si distingue per il proprio orientamento sociale e per la scelta di costruire il bene comune. E’ altresì impegnata ad agire in coerenza con la Carta dei valori del credito cooperativo e a rendere effettivi forme adeguate di democrazia economico-finanziaria e lo scambio mutualistico fra i soci”
[9] Cfr. J. Birchall, The future of co-operative and mutual business, Meiji University, Maggio 1999; P.A. Jones, Promoting financial inclusion – an analysis of the role of British credit unions in tackling poverty and over-indebtedness in low income communities, International Cooperative Research Conference, Dourdan, October 2006.
[10] Cfr. P.Bongini, ML Di Battista, E. Zavarrone, “David and Goliath: small banks in the era of consolidation. Evidence from Italy”, MPRA, september 2007; Cesarini, F., Ferri, G. e Giardino, M. (1997), Credito e sviluppo: banche locali cooperative e imprese minori, Bologna, Il Mulino, 1997.
[11] Secondo la Banca d’Italia si definiscono piccole banche tutte quelle il cui attivo è al di sotto dei 7 miliardi di €.
[12] Cfr. www.creditocooperativo.it
[13] Il recente accordo tra la DZ Bank e Cassa Centrale Banca – Istituto Centrale del Credito Cooperativo Trentino – costituisce un esempio significativo dei delicati equilibri all’interno del sistema. Nel suo complesso l’entrata della DZ Bank nel capitale di Cassa Centrale Banca rappresenta una grande opportunità di slancio e rinnovamento per le BCC del Nord-Est. Tuttavia, la valenza regionale del patto pare gettare un’ombra sulle strategie di sistema del credito cooperativo italiano, e lascia un passo indietro Iccrea Holding – la fabbrica nazionale di prodotti finanziari delle BCC – a sette anni dal Protocollo d’Intesa firmato a Riva del Garda tra Federcasse e Iccrea Holding con Rabobank e DG Bank che aveva come obiettivo la realizzazione di iniziative comuni in tutti i settori dell’intermediazione creditizia e finanziaria e che in concreto si è tradotto in poco di fatto. All’indomani dell’accordo tra Trento e Francoforte, Franco Senesi, presidente di Cassa Centrale Banca, ha auspicato che l’alleanza con il partner europeo vada “a vantaggio del resto del sistema cooperativo nazionale” ed ha rassicurato Federasse sul fatto che le BCC del Nord Est sono “parte di un movimento che vede nella Federazione Nazionale il versante associativo e non (hanno) intenzione di mutare riferimento”. Nonostante ciò, i fatti parlano di una frammentazione dei centri decisionali che favorisce il prevalere dell’autonomia sulla coesione, della diversità di vedute sui tentativi degli organismi nazionali di disegnare un modello coeso e unitario d’azione.
[14] Cfr. www.creditocooperativo.it/ecuador
[15] Cfr. E. Cusa, La revisione delle BCC: un’opportunità per il movimento cooperative bancario, in Cooperative e Consorzi, n.1/2007
[16] Ibidem
[17] Comunicazione COM/2004/0018, paragrafo 4
[18] Interrogazioni simili a quella inviata dalla Commissione Europea al Governo italiano per accertare la correttezza dell’istituto della fiscalità cooperativa sono state inviate anche a Spagna e Francia.
[19] Cfr. P.Bongini, ML Di Battista, E. Zavarrone, “David and Goliath: small banks in the era of consolidation. Evidence from Italy”, MPRA, september 2007
Skip to content