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La crisi finanziaria in corso ha eroso in modo significativo la base patrimoniale delle principali banche italiane e ha imposto a queste ultime la necessità, o in alcuni casi soltanto l’opportunità, di ricapitalizzarsi.
I principali strumenti di rafforzamento patrimoniale a disposizione delle banche sono l’emissione di nuove azioni a fronte di un aumento di capitale a pagamento sottoscritto dai soci o riservato a nuovi investitori (c.d. capitale «versato» o «puro») ed, entro certi limiti, l’emissione di  «strumenti innovativi di capitale». Questi ultimi sono fondamentalmente strumenti di debito – emessi sotto forma di obbligazioni – che presentano al contempo alcune caratteristiche tipiche del capitale. [//]
In ragione della loro natura «ibrida» gli strumenti in questione sono stati ammessi dal Comitato di Basilea – nonostante le critiche sollevate da più parti – nel computo del Tier 1 entro il limite del 20 per cento dell’ammontare dello stesso.
La qualificazione di una operazione di ricapitalizzazione come aumento di capitale «puro» o come emissione di strumenti innovativi di capitale dovrebbe essere condotta alla stregua del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, per evitare che ciò che costituisce sostanzialmente un debito possa essere qualificato come «capitale».
L’articolo prende in esame due operazioni di aumento di capitale recentemente eseguite da Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS) e da Unicredit per mostrare come la Banca d’Italia abbia, invece, adottato un orientamento piuttosto «formalistico» nella qualificazione degli strumenti di ricapitalizzazione. Le modalità concrete di realizzazione delle operazioni in questione sollevano, infatti, non poche incertezze circa la correttezza della loro qualificazione come «capitale puro» (c.d. Core Tier 1) e sembrano trasformare, mediante una ingegnosa opera di architettura giuridica, l’aumento di capitale in una operazione sostanzialmente di emissione di «strumenti innovativi di capitale».
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