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Il 2 e 3 luglio 2015 il presidio Cultura di RENA ha partecipato al secondo “structured dialogue” tra la Commissione Europea e la società civile sul tema della Governance Partecipativa dei Patrimoni Culturali, promosso all’interno del progetto Voiceofculture (www.voiceofculture.eu).
Progressivamente sdoganati come beni comuni, i patrimoni culturali – siano essi monumenti, musei, siti archeologici (beni fisici in generale) o intangibili (come le tradizioni, i paesaggi, i saperi e le pratiche che contraddistinguono un territorio), ora anche digitali –, attivano diversi modelli teorici che promuovono la loro cura e valorizzazione secondo modalità sempre più “comunitarie”;  sono meno, tuttavia, le esperienze concrete di successo, ancora giovani e/o fortemente condizionate dagli endowment culturali dei singoli Paesi.
Siamo in un periodo in cui sempre più frequentemente, anche nella cultura, si parla di partecipazione, intesa come nuova modalità di engagement e di audience development, e in cui è sempre difficile distinguere tra retorica e buone pratiche, in uno spettro di possibilità ancora ben riassunto – per quanto aggiornabile – dalla Ladder of participation di Arnstein. Ancor più difficile, soprattutto sui nostri territori, è comunicare il concetto che ci sia una ulteriore grossa differenza tra partecipazione e governance partecipative, considerando come le seconde implichino una vera e propria attività di lungo termine sulla pianificazione e sulla gestione di un bene, tanto dal punto di vista conservativo quanto di valorizzazione contenutistica ed economica. Si tratta di management – che, per quanto possa essere innovato, ha i propri codici e i propri linguaggi –, di affrontare e mediare relazioni complesse tra soggetti e istanze spesso conflittuali. In sostanza, le governance partecipative implicano un livello di tecnicismo, di fiducia reciproca e di disposizione a condividere (e cedere) effettive responsabilità molto elevati, su cui è arduo far convergere da un lato i referenti istituzionali (siano politici o amministrativi) e dall’altro le comunità di riferimento.
Tutti i soggetti potenzialmente coinvolti in questo tipo di processi oggi sembrano pagare lo scotto di tre “gap”, nella lettura di Siddiquir R. Osmani: il capacity gap, la mancanza di competenze specifiche colmabile solo attraverso uno scambio equo, mutuo e bidirezionale tra esperti e comunità; l’incentive gap, la mancanza di un ritorno concreto (di qualsiasi natura sia) che sappia coprire gli indiscutibili costi (di tempo, psicologici, economici) derivanti dall’aderire a un processo partecipativo; il power gap, la mancanza – o in generale  l’asimmetria – nella distribuzione del potere decisionale all’interno di ogni contesto, dove lo strumento partecipativo può per paradosso diventare un’arma a doppio taglio per esasperare il potere dell’élite dominante.
Su questi tre gap è stato indirizzato il brainstorming degli altrettanti gruppi di lavoro formati dai 40  practiotioner ed esperti provenienti da tutta Europa che si sono trovati a Firenze. Resta viva più di una perplessità su esempi concreti di funzionamento di modelli di governance partecipativa applicata ai patrimoni culturali, che anche in questa circostanza non sono emersi, così come la difficoltà di focalizzare sul tema in così poco tempo, partendo da percorsi e background dei partecipanti estremamente variegati, per provenienze territoriali e professionali. Perché forse è il tema stesso ancora ampiamente da dibattere, definire e comprovare, almeno in Italia (ma a quanto pare non solo): dimostrare l’effettiva plausibilità di una governance partecipativa, che in quanto tale non può svilupparsi ai confini o superficialmente, ma proprio nel cuore di ciascun patrimonio, promossa e accettata da tutti i soggetti potenzialmente coinvolti dal processo. Che impone livelli di trasparenza nella gestione del bene, delle risorse e del valore economico ad esso connesse per lo più sconosciuti; di “cessione di sovranità”, di coraggio di ridiscutere il proprio status di “esperto”, aprendosi ad esperienze terze che possono (possono davvero?) apportare un valore aggiunto nel processo di gestione; di confronto reale, non paternalistico, non basato sul bisogno (di integrare competenze, di forza lavoro) ma su una volontà (reciproca) di cambiare il paradigma, sacrificando parte dell’istituzionalizzato a favore di approcci innovativi dove le comunità, sia di professionisti non istituzionalizzati che di pubblici e stakeholder potenziali, possano mettere in circolo un know-how e un punto di vista alternativo a quelli assodati. Il percorso, sia degli Structured Dialogues, sia della Governance Partecipativa del Patrimonio Culturale, insomma, è solo agli inizi. Nello specifico del progetto Voiceofculture, seguiranno report dei gruppi di lavoro, un incontro con la Commissione Europea a fine settembre, la possibilità di partecipare al meeting del gruppo OMC (Open Method Coordination) degli Stati Membri di fine ottobre, oltre ad altri incontri su altri temi individuati come prioritari da discutere con i professionisti del settore culturale. Noi continueremo ad aggiornarvi.
Chiara Galloni
 

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