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In Italia la politica parla della moda come del fiore all’occhiello della creatività e del successo del Made in Italy. Tutti sono pronti a difendere la moda Italiana. “Il mio guardaroba è Made in Italy da sempre: non ho mai indossato niente di straniero, a parte i jeans.[//] Perché noi italiani produciamo cose straordinarie, nella moda e nel design”, ha dichiarato Ombretta Colli di Forza Italia in un intervista a Donna Moderna. Emma Bonino, dei Radicali, le fa eco: “Un capo Made in Italy è più di un vestito. La gente ci percepisce l’arte, il mangiar bene, la canzone, insomma il ‘Profumo Italia’”. Sulla moda italiana c’è un accordo bipartisan. Tutti ne vanno fieri, ma spesso non si va al di là dei complimenti di rito. E sono soprattutto i giovani a rimetterci.
Riccardo Agostini, Executive Director dell’Istituto Marangoni, celebre scuola di moda nata nel 1935, lamenta quanto poco sia stato fatto a livello nazionale e locale per sostenere il rinnovamento della moda ed il lancio di giovani stilisti. Agostini, 38 anni, ha una visione chiara del panorama della moda italiana e delle opportunità per gli stilisti emergenti. Come capo di una delle scuole di moda più prestigiose al mondo – con oltre 1500 studenti – è a contatto diretto con gli Armani, i Versace e i Dolce&Gabbana del futuro.
I ventenni che frequentano il Marangoni, che ha sedi a Milano, Londra e Parigi, trovano facilmente impiego nei grandi gruppi noti nel mondo – sia quelli italiani che esteri. Domenico Dolce, Franco Moschino e Alessandra Facchinetti, l’erede di Valentino, sono alcuni dei nomi celebri che si sono formati all’Istituto. Il problema – spiega Agostini – è che oggi pochi poi hanno l’opportunità di lanciare un loro marchio.
“Purtroppo il sistema Italia guarda poco al settore della moda, pur essendo un fattore trainante rimane in secondo piano”, dice Agostini. “Ci sono tante aziende piccole che faticano ad emergere perché non aiutate”. Nel 2007 il fatturato, secondo quanto rilevato dal “Fashion Economic Trends” della Camera nazionale della moda, è arrivato a quasi 70 miliardi di euro, in crescita del 2,9% rispetto al 2006. Ma secondo gli esperti del settore, pochi di questi soldi verranno poi investiti in nuovi progetti per il lancio di collezioni create da debuttanti.
I due problemi principali sono la mancanza di fondi – privati e pubblici – per aiutare i giovani e la carenza di politiche che ne promuovano i progetti, spiega Agostini. Le banche raramente offrono crediti a piccoli progetti perché non considerano sufficienti le garanzie offerte da stilisti con poca esperienza alle spalle. Anche nell’industria – in particolare le case di produzione tessile – c’è poco interesse ad investire in progetti medio-piccoli.
“Spesso i produttori rifiutano le mie idee perché dicono di essere troppo presi dagli ordini delle grandi case, tipo Armani e Ferragamo”, rivela una stilista emergente che preferisce mantenere l’anonimato. Con questa scusa, le case di produzione non investono nel nuovo e vanno sul sicuro con i soliti clienti.
Dal settore pubblico, invece, manca una politica chiara che aiuti la moda dei “piccoli”. I concorsi in vigore per promuovere stilisti emergenti, organizzati dallo Stato e da diverse associazioni di settore, spesso falliscono nel raggiungere i loro obiettivi.
Il “Concorso Nazionale Professione Moda Giovani Stilisti” promosso dalla Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA), con il patrocinio di diversi ministeri, attribuisce come premi una borsa di 1.000 €, uno stage-studio presso un centro moda e una medaglia della Repubblica Italiana. I giovani stilisti chiedono altro. Vogliono un sostegno più concreto. “Per esempio – spiega una ragazza italiana che sta per finire il suo corso all’Istituto Marangoni di Londra – lo Stato potrebbe concedere dei prestiti a tasso d’interesse agevolato, per aiutare gli stilisti e gli imprenditori sotto i 35 anni a sviluppare i loro progetti nel settore della moda”.
Inoltre, i giovani stilisti chiedono che lo Stato crei delle strutture per spingere le aziende interessate a investire nelle nuove promesse. Nel Regno Unito, il British Fashion Council, insieme al Ministero della Cultura e dell’Industria britannico si è impegnato attivamente nella promozione di politiche a favore dei giovani stilisti fissando la tassazione al 20% per joint venture tra giovani stilisti ed imprenditori. In questo modo il governo spinge attivamente per riunire creatività e business.
Come se non bastasse, a Londra sono presenti anche molte associazioni – pubbliche e private – che offrono sostegno, anche specializzato, a chi vuole lanciare la propria impresa. Il Design Council – finanziato dal governo – e Designer Help – privato – aiutano giovani stilisti dalla creazione di un business plan fino al lancio del prodotto. Tutto ciò aiuta a promuovere una cultura imprenditoriale aperta al rischio. Elementi fondamentali per ottenere dei risultati positivi.
Agositini dice che nel Regno Unito, in particolare a Londra, ci sono maggiori opportunità per i giovani: “[In Inghilterra] credono in qualsiasi progetto valido. Piccolo o grande che sia”. Un altro elemento che stupisce nel confronto tra Italia e Regno Unito è che le scuole di moda sono riconosciute dal Ministero dell’Educazione britannico ma non da quello italiano. L’Istituto Marangoni – per esempio – non è riconosciuto come università. Invece, la Central Saint Martins, sua omologa londinese è un’università a pieno titolo.
“[In Italia] il ministero dà poca attenzione agli istituti d’eccellenza come il nostro”, dice Agostini, che non nasconde un pizzico di frustrazione. “Lo stato ci ha voltato le spalle”.
Con molti nomi dell’alta moda italiana che passano in mani straniere – vedi Valentino venduto alla finanziaria inglese Permira – è assolutamente vitale che le istituzioni e gli imprenditori vadano incontro alle stelle emergenti della moda, conclude Agostini.
La creatività non manca, ma bisogna dare spazio agli Armani, Versace e Valentino del futuro.
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