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Ovvero, smontiamo l’immagine del mentore saggio perché vecchio.
La figura del mentore è purtroppo poco diffusa in Italia e in Europa. Si tratta di un paradosso, poiché l’origine del termine risale all’antica Grecia. Mentore è infatti un personaggio dell’Odissea al quale Ulisse affida il figlio Telemaco prima di partire per la guerra di Troia. Quando Telemaco decide di prendere il mare per cercare suo padre, la dea Atena prende le sembianze di Mentore per accompagnare il giovane e guidarne il viaggio. Nell’accezione moderna, il mentoring è un processo informale di trasmissione di conoscenze fondato sul rapporto personale costruito nel tempo tra un “mentore” e il suo cosiddetto “protegé”.
Coach. Insegnante. Maestro. Guida. Leader. Protettore. Consigliere. Sostenitore. Garante. Amico.
Tutte queste parole corrispondono a diverse sfaccettature della figura del mentore e danno un’idea della molteplicità dei ruoli che può svolgere nei confronti del proprio “protetto”. La tradizionale immagine del mentore è quella di una persona anziana (spesso un uomo) che decide di concedersi e condividere le proprie pillole di saggezza con un giovane. L’immagine è paternalistica. Cerchiamo di capire se almeno riflette la realtà. Cosa fa esattamente un mentore? Ascolta, consiglia, spiega, racconta, incoraggia, rassicura, sprona, difende e risolve. Quali caratteristiche deve avere un buon mentore? Deve essere sicuramente disponibile e competente, deve avere i piedi per terra e rappresentare un modello a cui ispirarsi, deve dare il buon esempio ed essere aperto all’apprendimento continuo e al cambiamento.
Ora, queste caratteristiche non sembrano essere attributi esclusivi di chi ha da tempo raggiunto l’età della pensione. Anzi, a dirla tutta, quei connotati si addicono più ad un individuo tra i 30 e i 40 anni che si trova in piena fase di crescita professionale, che ha già accumulato molte esperienze qualificanti da un punto di vista personale, sociale e lavorativo. Una persona che – a differenza dell’anziano saggio di cui sopra – ha il vantaggio di appartenere ad una generazione più vicina, quella precedente, rispetto ai potenziali protegé. Gli ex-giovani 30enni e 40enni sono più qualificati per poter indirizzare e guidare i giovani adolescenti e i 20enni delle nuove generazioni perché sono parte integrante del mondo globalizzato emerso negli ultimi venti anni. Sono al passo con le innovazioni e cavalcano i nuovi trend, conoscono l’università perché l’hanno lasciata da poco ma già padroneggiano le dinamiche, i trucchi e le debolezze del mercato del lavoro. Hanno viaggiato di più e molti hanno studiato e/o lavorato per alcuni anni all’estero. Con le nuove generazioni condividono gli spazi di interazione e comunicazione legata ai social media e sanno accedere con facilità alle conoscenze e ai saperi disponibili sul web. Con i più giovani condividono paure e ambizioni simili. Hanno fatto scelte coraggiose a volte anche sbagliate, ma si sono rialzati, senza rancore e non si vergognano di raccontarlo.
In breve, queste affinità si riassumono con la parola complicità. La complicità e il contagio positivo che si viene a creare tra due generazioni diverse ma vicine sono un elemento determinante. Il vantaggio comparato di questo patto inter-generazionale è evidente. Creare un rapporto di mentoring tra generazioni prossime è un’esperienza gratificante tanto per il mentore che per il protetto. Basta poco per ottenere tanto. La volete un’idea di facile ed immediata realizzazione? Basterebbe che ogni 30enne e 40enne tornasse una volta all’anno nella propria scuola superiore per incontrare gli studenti delle ultime due classi.
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