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David Gray. Reuters


Le domeniche erano tutte uguali. Erano domeniche italiane dell’Italia per bene, quella dell’inizio degli anni Ottanta che non si accorgeva degli anni Ottanta e continuava a vivere giornate di lavoro, casa e chiesa, mentre a Roma già avevano capito che se fotti non se ne accorge nessuno. Non subito almeno. Non se si riescono a fare stare zitti quelli che se ne accorgono.
Noi vivevamo lontano da Roma. A Torino, che rispetto a Roma è dall’altra parte del mondo. Per di più si trattava di una Torino di periferia, quella dei lunghi corsi a sei corsie tutto asfalto e niente alberi che scorrono tra file di palazzi beige, arancioni e grigi, alti fino al cielo, ma senza esattamente lo slancio dei grattacieli e nemmeno l’imponenza delle costruzioni da soviet. Palazzi, insomma, niente più che brutti palazzi, con balconi larghi un metro da cui mai mi è capitato di vedere nessuno sporgersi, se non quella volta della tragedia. Balconi su cui qualcuno si ostina a tenere fili di plastica che servono a riempire il bucato di smog e di rumore. Balconi dove le lenzuola non si riposano. La Torino del dopo sciopero colletti bianchi, per intenderci, e la mia una famiglia di operai e, quindi, ormai gente che non aveva più niente da fare, nemmeno gli scioperi. E allora la domenica io, mio fratello e le mie due sorelle caricavamo in macchina moglie, marito e figli e andavamo al numero cinquatanove di corso Grosseto e, dopo aver fatto scorta di sigarette al bar dello sport lì accanto, suonavamo al campanello di casa dei miei genitori. Minnelli Marino. Mio padre.
Mio figlio David era abbastanza alto da riuscire a raggiungere il pulsante e così ogni volta gli facevo tirare la mano fuori dalla tasca e gli dicevo di suonare. Io lo sapevo che David dai nonni non ci voleva andare e che avrebbe preferito starsene nel cortile di casa a giocare con gli amici, oppure buttato per terra a far correre le macchinette di formula uno sulla pista, però dai nonni bisognava passare, non potevamo lasciarli soli. Papà aveva appena preso la pensione e ancora non si era abituato a tutto quel tempo a disposizione. Lui, che era uno di quegli uomini che nella vita non aveva fatto altro che alzarsi la mattina e andare alla catena di montaggio con il pranzo preparato il giorno prima dalla moglie, che per hobby giocava al totocalcio e per dovere guardava i telegiornali, ancora non aveva scoperto le telenovelas sudamericane, che presto avrebbero appestato i suoi pomeriggi, e quindi si annoiava e a pagarne le conseguenze era mia madre. Liberarla dalla sua compagnia almeno uno o due giorni alla settimana era il minimo che noi figli potessimo fare.  Quando il citofono gracchiava David rispondeva  noi e poi si rimetteva con la testa bassa, con l’aria di uno che sa che non ci sono alternative e quindi tanto vale farsela passare, ma senza spingersi troppo in là con il compromesso. Il portone di ferro blu, richiudendosi alle nostre spalle, faceva sempre un fracasso mostruoso, di cose che si sfasciano.
L’ascensore di corso Grosseto non mi ha mai fatto fare viaggi tranquilli. Era troppo piccolo, non da dentro, ma da fuori. La cassa era troppo stretta rispetto alla gabbia e tirata da quei lunghi fili neri, che sembravano le bave di una tarantola, non faceva che sbattere di qua e di là ad ogni piano. Dentro tremava tutto, soprattutto quando i passeggeri non sfioravano il carico massimo. Le porte si chiudevano leggermente sghembe e durante la risalita sembravano i denti di una bocca infreddolita. Il neon poi ti impediva di guardarti allo specchio con serenità. Piuttosto che vedere la propria faccia ingiallita dalla luce, uno preferiva voltarsi dall’altra parte e guardare la parete. Le porte no.  Ornella, mia moglie, in quei giorni era al sesto mese dell’altro nostro figlio. Dal terzo mese in avanti ogni volta che salivamo sull’ascensore di casa dei miei si toccava la pancia con apprensione, nascondeva il viso sotto i capelli e si mordeva nervosamente il labbro inferiore. Una volta finsi di scambiare quel gesto per tenerezza e allungai anche io la mano sulla pancia. Ornella si sollevò i capelli buttando indietro la testa e, squadrandomi, mi staccò la mano da lei senza concedermi lo spazio per reagire. Mi bastò una volta per tutte, non si trattava di tenerezza.
A darmi le pene maggiori, però, durante quei viaggi in ascensore era David. È qui, infatti, che io mi sono fatto la domanda più importante, tra i cigolii dei cavi e i tonfi della cassa e le tremarelle delle porte inferme, sul linoleum marrone a bolle rotonde, di traverso rispetto alla specchiera decorata con decine di gomme da masticare, magari messe lì dai miei nipoti più grandi. È qui, a metà tra il quarto e il quinto piano, in quella terra di nessuno di cemento armato, che mille volte mi sono chiesto Ma io sono, sarò mai un buon padre? Che tormento, gli occhi di mio figlio. Era da lì che veniva quella domanda, dalla sua preoccupazione. Era come se mi dicesse ma perché mi fai questo, papà? Mi fissava con la testa appena sollevata e le sopracciglia leggeremente corrucciate e gli occhi spalancati a chiedere conferma che tutto andava bene e che stavamo al sicuro. Mi piombava addosso tutta la mia inadeguatezza di genitore, tutta la fatica che mia moglie ed io eravamo costretti a fare per nascondere a David le nostre paure, la paura di non riuscire a pagare il mutuo, la paura di perdere il lavoro, la paura degli eronoinomani che venivano a bucarsi sotto casa, la paura di dovermi trovare un giorno a non saper spiegare a mio figlio come fare per vivere una vita migliore di quella che avevo vissuto io, la paura di non sapergli dire non è nulla, figlio mio, è solo un ascensore un poco fesso. Quei viaggi erano una tortura di silenzio. E io me li facevo guardando la parete.
Poi finalmente arrivava l’ultimo sussulto, un singhiozzo forte che dava una bella scrollatina, l’ascensore faceva due o tre rimbalzi, e poi si stabilizzava completamente. Le mezzeporte scomparivano di lato e, dietro il vetro rettangolare della porta al piano, trovavamo mia madre pronta ad accoglierci. Era una delle sue funzioni, quella di farsi trovare davanti all’ascensore per abbracciare i nipoti, insieme a quelle di lavare, stirare, cucinare e stare zitta, così tanto sua che mai mi sarei potuto immaginare che pur nella sua abnegazione di moglie del sud sarebbe potuta arrivare a rinunciarvi. Quel giorno, però, quando l’ascensore ebbe completato singhiozzo e saltelli, al posto degli occhiali quadrati di Rosetta Minnelli e dei suoi capelli cotonati blu, comparve un luminoso cranio lucido e pelato. A sorpresa Rosetta, dopo anni di dominio incontrastato del pianerottolo del sesto piano di corso Grossetto cinquantanove, era stata prepotentemente scalzata da suo marito Marino. Era la prova che la pensione era ormai arrivata ad uno stadio avanzato e presto avrebbe finito per invadere anche il più geloso degli spazi della vita di mia madre.
Mi si bloccò la mano sulla porta, gelata, e, se non fosse stato per l’impazienza di Ornella che con un grugnito mi fece intendere che avevamo già passato abbastanza tempo in quell’ascensore, sarei rimasto a lungo in quella posizione, ipnotizzato dalla cute dorata della boccia di mio padre. Trattandosi di una prima assoluta ci trovammo tutti un po’ a disagio. Eravamo abituati ad una gestualità e ad una velocità nei movimenti che erano andate consolidandosi negli anni e ora d’un tratto dovevamo improvvissare abbracci in ordine confuso e saluti un po’ impacciati. Non vorrei esagerare, ma mio padre aveva l’aria di essere perfino leggermente emozionato. A conferma della tesi gattorpardesca che attraversa tutta la storia della mia famiglia, però, questo fu l’unica significante variazione sul tema di quel pomeriggio dai nonni, almeno fino a quando non successe tutto il resto.
Entrammo in casa e, lasciate giacche e giacchette, andammo subito ad accomodarci in cucina. Come al solito eravamo i primi ad arrivare. Io sono il figlio più piccolo e quindi è mio dovere mostrare più affetto di quello mostrato in media da fratelli e sorelle. I muri verdini, che io stesso avevo reimbiancato tre quattro volte, quel giorno mi sembrarono più soffocanti del solito, e così pure quelle vetrine con le tazzine di ceramica tutte diverse e la serie delle foto di famiglia e i calendari di Padre Pio. Ornella ed io ci andammo a sistemare sulle poltrone di finta pelle rossa sulla sinistra, mio padre e mia madre si piazzarono dalla parte opposta come era loro abitudine e David dopo aver strappato il Topolino dalle mani di mia moglie si lanciò sul divano dove si andò a piazzare con le gambe dritte e i piedi che appena spuntavano oltre il cuscino. Bim bum bam sarebbe arrivato soltato un anno dopo, quindi per ora i fumetti potevano bastare. L’incubo della televisione per i genitori italiani non era ancora nella sua fase acuta. Con i miei passammo in rassegna gli argomenti comuni, il tempo, il lavoro, la scuola di David, fino a quando mio padre non cominciò a dare segni di irrequietezza. Per la prima volta in vita sua fece qualcosa che di lì in avanti avrebbe preso a fare con una precisione sempre più maniacale. Passò in rassegna tutti i prezzi di frutta e verdura, bancarella per bancarella, che aveva mandato a memoria durante la visita al mercato del mercoledì di via Chiesa della salute. Si era messo in testa che mia madre per una vita non aveva fatto altro che buttare via i soldi dalla finestra comprando sempre la roba più cara e ora era arrivato il momento di dare una svolta. Mamma lo lasciò sfogare per qualche minuto e poi per tagliare netto disse Pietro, e vai a prendere due caramelle per il bambino, forza.
Le caramelle. L’affetto dei nonni per i nipoti passava di qui. E si fermava qui. Mai un regalino, mai una sorpresa, ma non per cattiveria, solo per mancanza di fantasia. Le caramelle stavano nel salotto, una stanza che era rimasta pressocché inutilizzata da che una delle mie sorelle aveva avuto un momento difficile con suo marito e per un periodo si era trasferita da miei. Era una stanza con un suo carattere, con un divano in velluto e pizzi e pizzini sul tavolo e sui comodini. Aveva mobili in legno massiccio e pure un tappeto persiano che non ho idea di come sia potuto arrivare in quella casa. Era una stanza silenziosa, dove si poteva entrare solo con le pattine sotto le scarpe. Nonostante fosse la camera delle caramelle, o forse proprio per quel motivo, in quella stanza i bambini non erano ammessi. Aprii la credenza e trovai un vassoio già carico di dolcetti di ogni tipo. Mi limitati a sfilare il vassoio e subito chiusi a chiave le antine del secolare tabernacolo. Prima di ritornare in cucina, però, mi venne voglia di fermarmi dietro il vetro che dava sul balcone e così scostai con la spalla le tende di filato e rimasi a guardare il panorama.
Non che ci fosse molto da vedere in verità. Davanti a me si allungava poco di più della tangenziale nord e intorno qualche basso capannone industriale o qualche deposito. Però c’era la buona luce di un sole d’inverno e il cielo era pulito e guardando sulla sinistra si potevano vedere le montagne più alte ben imbiancate. Rimasi con il vassoio carico di gelatine e gianduiotti in mano per qualche istante, poi lo posai sul davanzale e mi scartai un cioccolatino. Considerato che io non vado matto per i dolci, credo di non mentire se dico che si trattò di un gianduiotto memorabile. Me lo posai sulla lingua intero e richiudendoci le labbra intorno mi accorsi che la punta restava fuori dalla bocca. La cosa mi fece sorridere nel pensiero, ma lo lasciai lì e senza dare morsi mi misi a succhiare lentamente, mentre con gli occhi guardavo lontano e mi chiedevo dove potesse trovarsi il Monte Rosa. Il salto cominciò quando mi sembrò di aver identificato la montagna e una frazione di secondo dopo diedi il primo morso al gianduiotto, che in due o tre masticate sparì nel fondo della mia gola, lasciando dietro di sé solo gli zuccheri che presto si sarebbero trasformati in acido nocivo per i miei denti. Avevo visto un uomo in abito da festa precipitare, da sopra, dai piani di sopra. Un corpo a testa in giù, già ben oltre la fine della parabola, che, arrivando sui fili del bucato del terrazzino di casa dei miei, aveva completato la capriola, si era rimesso in verticale e aveva continuato il suo volo verso il basso, anche lui, per un momento, con lo sguardo rivolto in direzione del Monte Rosa.
Deglutii, ripresi il vassoio in mano e tornai in cucina. Lasciai che David facesse la prima scelta e anche lui prese un gianduiotto e poi chiesi a mia moglie se voleva qualcosa. Lei fece una smorfia che voleva dire di no. Sapevo che i miei non mangiavano dolci per questioni di salute e quindi poggiai le caramelle sul tavolo. Intanto mia madre aveva già riempito le tazzine di caffé e per David aveva pronto un bicchiere di cocacola. Dissi quei fili, mamma, perché li tieni? Mettili di qua, no? Dall’interno, ché a stendere di là ci sta lo smog. Fu tutto quello che riuscii a dire sull’accaduto, tutto quello che mi venne da confessare su quanto avevo appena visto. Mio padre pensò che in effetti avevo ragione e quindi magari nei prossimi giorni si sarebbe messo al lavoro per smontare gli archetti e rimontarli sul balcone che dava sul cortile, così finalmente sua moglie avrebbe smesso pure di portare il bucato su e giù per la stanza bella.
Passarono due o tre minuti e poi suonarono al citofono. Mamma si alzò e quando tornò in cucina annunciò che era arrivato pure Nicola con il figlio. Nicola era il mio fratello maggiore e all’improvviso il cuore cominciò a battermi forte. Rimasi inchiodato alla poltrona e per provare a mantenere il controllo della situazione chiesi a David come era quel Topolino. Lui disse che era buono, ma senza interrompere la lettura, il che diede a mia moglie l’occasione di rimproverarmi e di dirmi che lo dovevo lasciare in pace. Come si aprì la porta dell’ascensore il pianerottolo fu invaso dalle urla di mio nipote Andrea che piangeva come un disperato e dietro si sentirono le voci confuse di Nicola, di sua moglie e dei miei che si agitavano come chi non ha ancora capito che cosa è capitato, ma deve comunque trovare una soluzione. Ornella si alzò di scatto per vedere cosa stava succedendo e corse di là per raggiungere i miei, che erano andati a celebrare un nuovo benvenuto e si erano ritrovati tra le braccia un nipote sconvolto e un figlio e una nuora pallidi come due cenci. David, invece, fermo sul divano con i piedi che appena spuntavano oltre il cuscino, mi mise addosso gli occhi dell’ascensore. Mentre ancora gli facevo segno di stare calmo e zitto con la bocca a culo di gallina, mio fratello entrò in cucina con la faccia sconvolta e disse madonna, Pietro, De Domenici, quello dell’ottavo piano, s’è buttato di sotto. Trentott’anni, e pure un figlio. E io risposi lo so, Nico’, lo so.