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All’Europeo 2008 ha vinto la squadra più giovane, e con l’allenatore più vecchio. Une ricetta perfetta, che combina la velocità, l’entusiasmo e la creatività dei calciatori con l’esperienza e la visione d’insieme del commissario tecnico. La prova di ciò che nonni e nipoti possono produrre quando lavorano in maniera sinergica, e più in generale quando all’interno di un team, che sia una nazionale di calcio, un’impresa[//], un’università, un partito politico o la società a più ampio raggio, esistono adeguati canali di trasmissione del sapere attraverso le generazioni.
In Italia questi canali – sarebbe meglio dire contesti – di trasmissione hanno fatto da sempre, da secoli, la ricchezza del paese. Basta pensare alle botteghe artigiane del Medioevo, o alle scuole di artisti. Giotto aveva 20 anni quando frequentava la scuola di Cimabue. Raffaello ne aveva 14 anni quando iniziò sotto la guida del Perugino, e 17 quando partecipò alla sua prima opera importante in onore di San Nicola da Tolentino.
Oggi pare che abbiamo dimenticato il valore sociale e culturale, ancor prima che economico, di questo travaso di conoscenze, che è prima di tutto in termini di esperienza diretta, sul campo, e non tecnico o prettamente contenutistico. Le ragioni sono in particolare due.
Anzitutto, è cambiata la natura del sapere, e in particolare quella dei nuovi saperi. Nella società contemporanea, sono spesso i nipoti ad insegnare ai nonni. Per secoli, è stato il vecchio contadino a spiegare al nipote come arare, sarchiare, o quando seminare in base al calendario lunare. Nello stesso modo, erano il fabbro o il falegname più anziano che insegnavano il mestiere al garzone di bottega. Oggi tutto questo sa di altri tempi, e viviamo in un’epoca che ha segnato, di fatto, la fine dell’apprendistato, inteso come periodo di apprendimento di un mestiere.
Ciò non ha a vedere soltanto con i cambiamenti radicali intervenuti nel mondo del lavoro, ma anche – e forse più – con quelli che hanno interessato la produzione e la trasmissione di sapere. Per fare un solo esempio, dalla fine degli anni ’90 sono i quindicenni e i ventenni che insegnano ai nonni (e spesso anche ai genitori) ad usare internet, a ricevere e a mandare email, o magari a effettuare pagamenti online e a mettere in piedi un piccolo commercio reale attraverso uno strumento virtuale come E-Bay. Questo vale per l’Italia, ma vale più in generale per tutte le società avanzate – per il vecchio Occidente, potremmo dire. Non si tratta di tornare sui campi, o in bottega. Ma di adattare ai nuovi tempi quei modelli e la loro funzione sociale. Si tratta di inventare i loro sostituti contemporanei.
La seconda ragione – molto più legata agli sviluppi (o ai mancati sviluppi) di casa nostra – ha a che fare con il travaso e l’assorbimento delle conoscenze, che si è arrestato perché i nonni, invece di tramandare un’attività, continuano ad esercitarla loro in prima persona. Molto spesso, e in molti settori, l’antico rapporto di successione tra generazioni è stato rimpiazzato da un rapporto di competizione.
Ancora una volta, questa trasformazione non ha interessato un solo comparto produttivo, ma tutta la società in maniera trasversale. Il numero di imprenditori ultrasessantenni in Italia è sempre più elevato, e non solo per via dell’allungamento medio della vita. Per non parlare di ciò che avviene con la politica, dove il ricambio è ostacolato da una classe di politici e amministratori, ad ogni livello di governo, che sembra aver rinunciato non certo alla pensione, ma al pensionamento. Anche in campi dove per definizione i giovani avrebbero la meglio, i nonni – o le nonne – continuano a tenere banco. Roberto Bolle danza, ma continua a danzare anche Carla Fracci.
Da un lato si potrebbe pensare che il secondo sviluppo sia la conseguenza del primo: i nonni hanno paura del sapere dei giovani, ne temono la competitività, e per questo li tengono alla larga. In realtà, la storia non è la stessa dappertutto. Mentre nel resto del mondo i contenitori del sapere diventano più giovani, in Italia questo non avviene. Così restiamo incapaci di leggere la modernità, attraverso una lettura che invece non può che essere intergenerazionale, a “quattr’occhi”: i due occhi del nonno, e i due occhi del nipote. I “vecchi” cervelli non reggono più il passo coi tempi; i “nuovi” non hanno i riferimenti necessari per camminare sicuri. E tutto questo, semplicemente, perché ci mancano infrastrutture moderne per la trasmissione del sapere.
Di cosa ci sarebbe bisogno, allora?
Si può pensare a diverse cose. Ma difficilmente si può continuare a fare a meno di strutture private e pubbliche che favoriscano forme di aggregazione inter-generazionali e il passaggio dell’esperienza. Non si tratta di mettere insieme giovani e meno giovani nella stessa stanza. Si tratta di metterli a lavorare insieme a progetti comuni; di coniugare la (presunta) intraprendenza dei primi con la (presunta) saggezza dei secondi. Può valere per il volontariato e l’associazionismo come per l’impresa e l’università. Ma può valere anche per rivitalizzare il tessuto sociale delle comunità locali. Tutto questo anche grazie alle enormi possibilità che il progresso tecnologico offre.
Il vantaggio sarebbe per tutti: per i giovani, perché aggiungerebbero conoscenza, assets e insegnamenti al bagaglio con il quale stanno cercando di capire (e orientare) il mondo; per gli anziani, perché ridarebbe loro centralità all’interno della società, non solo come destinatari di politiche pubbliche (spesso di assistenza) o come protagonisti incaponiti del loro piccolo mondo, ma a più ampio raggio come veicoli di cambiamento attraverso le nuove generazioni. Non sta agli anziani, come invece ancora spesso accade, programmare il futuro di un paese. Ma sta agli anziani fare in modo che i “nuovi programmatori” lavorino a vantaggio di tutta la società e non solo di loro stessi. E soprattutto, che non (ri)scoprano decine di volte l’acqua calda. Il vantaggio, infine, sarebbe per la società in generale, perché queste nuove forme di dialogo e di cooperazione intergenerazionale non solo favorirebbero la crescita, economica e culturale, ma agirebbero da forte collante sociale.
E’ fondamentale che all’interno delle nostre società, sempre più atomizzate, ritroviamo il gusto della sperimentazione civica, dell’ingegneria sociale. Che ci inventiamo nuovi modi di organizzare la società e di valorizzarne il potenziale. Capendo che ciascuno può fare poco da solo, anche solo per se stesso. Non bastano più le parrocchie, i boyscout, i partiti, i campetti da basket, i lungomare, le panchine sotto casa. Servono nuove forme di socialità e di aggregazione, nuove possibilità di incontro, dinamiche, fluide, a “geometria variabile”. E cioè, al passo coi tempi. Ogni società è come un corpo vivo: senza movimento si condanna all’artrite.
Non deve valere solo per pochi eletti, per la punta dell’iceberg. Deve interessare tutti: quello che c’è da fare non è trasformare ogni nonno o nonna d’Italia in un nuovo “personal manager”, o in un consulente. Quanto piuttosto capire che la maggior parte delle persone ordinarie ha vissuto vite straordinarie, accumulando un patrimonio di insegnamenti, lezioni, esempi e storie che le società avanzate del XXI secolo non possono più permettersi di continuare ad ignorare. E’ davvero paradossale che proprio oggi, con l’avvento progressivo della società della conoscenza, si siano inceppati alcuni meccanismi tradizionali e vitali di trasmissione delle conoscenze.
L’Italia non ha vinto l’Europeo 2008. Ma ci sono partite ben più importanti che aspettano il nostro paese negli anni a venire. E non sarà una questione di Donadoni o Lippi, né di Gattuso squalificato o di Cannavaro infortunato. Sento ripetere spesso che quando c’è un mondiale o un europeo gli italiani diventano “tutti allenatori”. Di nuovi allenatori ce ne sarà sempre più bisogno. Ma non di allenatori del pallone, e non solo nei giorni in cui la nazionale si giocherà l’accesso ad una semifinale.