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Resoconto fuori dalle righe di un sabato mattina all’ITC Savi di Viterbo. In cerca del Massimo Comun Denominatore
Sono le 8 del mattino di un sabato di novembre, appena fuori dalle mura di Viterbo.
Il busto del geologo Paolo Savi, fiero ed impettito nonostante l’aggiunta di un improbabile paio di baffi blu spruzzati dal cap di chissà quale bomboletta, accoglie gli avventori nel cortile dell’Istituto Tecnico Commerciale che gli deve il nome.
Lo stesso Istituto in cui, pochi minuti dopo, dodici poco-più-che-ragazzi proveranno a spiegare ad un pubblico di circa centoventi poco-meno-di-adulti cosa si cela, davvero, dietro i termini “lavoro” e “università”.
È questo il senso ultimo di (In)formiamoci, l’iniziativa di orientamento e mentoring che Rena sta esportando su scala nazionale nelle classi quinte delle superiori. Tra coloro che spiegano e coloro che ascoltano le barriere sono ridotte al minimo: non c’è un vero e proprio palco, e se c’è, comunque gli arenauti ne scendono, il microfono in mano solo per non dover schiarire la voce troppo spesso.
I ragazzi del Savi si divertono.
Per rompere il ghiaccio, si inizia col leggere alcune tra le risposte più buffe al questionario fatto compilare online ai ragazzi qualche giorno prima dell’iniziativa.
“Cos’è Rena?” “Un videogame”, risponde qualcuno. “Da grande come ti vedi?” “Credo di star acquisendo le competenze per essere un buon Presidente del Consiglio”, gli fa eco qualcun altro. Gli studenti ridono dietro le loro felpe a maniche larghe, le ragazze sghignazzano coprendosi la bocca, vergognose.
Poi tocca a loro: eccoli dunque chiamati ad alzarsi in piedi, ad immaginarsi una giornata lavorativa da giornalista, oppure da sindaco, o da esperto di relazioni internazionali in un’impresa. E cosa fa il manager di una società di consulenza? I ragazzi si lanciano, ci provano, qualche volta ci pigliano anche.
“Sì, sono giornalista, guadagno bene, non cambierei questo lavoro con nessun altro: ho un bell’ufficio, vado in giro con il mio iPad a raccogliere informazioni…” prova ad ipotizzare, con il candore squisitamente utopistico dei suoi pochi anni, una studentessa.
La prof. Alessandra Sacchi e gli altri insegnanti, da dietro, sorridono, consapevoli. Qualcuno prende appunti.
Gli arenauti poi calano la maschera, raccontano quante ne hanno passate per arrivare lì, dove sono ora. Quanti schiaffi, quante ricadute, quante mani da stringere, quante volte si è chiamati a reinventarsi. “E quanto guadagna un sindaco, secondo voi?” “Con o senza mazzette?” azzarda qualcuno a mezza voce.
Poi, col passare del tempo, i luoghi comuni si sfaldano come neve al sole. I ragazzi ascoltano attenti, il corpo proteso, lo sguardo corrugato.
Le domande a volte dissipano dubbi, altre li alimentano, perché scostando il cespuglio a volte s’intravedono voragini che tolgono il respiro.
Qualcuno si ferma anche dopo il fatidico suono della campanella – e questo è il miracolo più grande – per capire meglio, per chiedere se davvero ne vale la pena, di provarci, a fare la parrucchiera, oppure l’avvocato.
I sogni dei ragazzi di provincia s’assomigliano un po’ tutti, e hanno colori vivaci che stridono col grigio dell’asfalto che gli ha fatto da grembo per tanti, troppi anni.
“Io a tredici anni volevo fare l’astronauta. Oggi il commercialista. Spero che il mio capo mi tratti bene, di avere un ufficio grande”. “Se credo davvero che tutto andrà così? No, non penso siamo in Italia”.
Eccola qui, in coda, la risposta che RENA, grazie ad (In)formiamoci, vuol contribuire a debellare per sempre dal codice genetico dei giovani italiani.
 
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