E’ servito il sangue. C’e’ stato bisogno di morti, altri morti, per indurre l’Europa ad agire. A fare quello che la gente della rivolta di Maidan (o della “rivoluzione”, come la chiamano a Kiev), chiedeva da mesi: porre sanzioni sul Presidente Yanukovich, responsabile delle violenze perpetrate dalla polizia.
E se questo era il prezzo, il sacrificio delle vite umane ha ottenuto lo scopo: di fronte alle immagini di altre violenze e di altri morti, trasmesse dai media internazionali, i ministri degli esteri dell’Unione Europea hanno deciso ciò di cui fino a quel momento avevano solo parlato, ossia il blocco dei conti bancari del Presidente e di altri esponenti del governo e della amministrazione ucraina.
Economia della solidarieta’
Quante vite umane ci vogliono per una sanzione internazionale? Quale è il prezzo esatto da pagare per ottenere una azione europea? Dove si trova il punto di equilibrio tra la curva di domanda e la curva di offerta sul mercato della solidarietà?
Sta da qualche parte tra le 9 vite umane messe sul piatto a gennaio (troppo poche per indurre l’Europa ad agire) e le 82 raggiunte a venerdì scorso (cifra sufficiente, si è visto).
Ogni vita umana è un mondo intero. Noi non sappiamo quantificare il valore di due diverse vite, dire quale ha più valore di un’altra.
L’economia dei rapporti fra governi, fra Stati, invece è più precisa. E’ possibile quantificare il valore monetario esatto (stimato) di una sanzione politica, di una dichiarazione di sdegno, di una telefonata internazionale fra capi di governo o ambasciatori. Prezzo del petrolio russo che sale, diminuzione del numero di contratti firmati fra le grandi aziende “campioni nazionali”, minori profitti e insoddisfazione degli azionisti, stampa contraria, meno fondi per la prossima campagna elettorale e meno voti, rischio di non essere rieletti o di ottenere un incarico di minor prestigio.
Le parole politiche possono – e sono – oggetto di una quantificazione economica precisa; diversamente, il sangue versato no.
Dalle sanzioni alla vittoria della “rivoluzione”
Pure, dopo l’annuncio di sanzioni da parte dei governi europei, e’ stato usato altro fegato, poi, c’e’ stata ancora determinazione e presenza di uomini e donne.
Nel pomeriggio di Giovedì 20 febbraio, il consiglio dei ministri degli esteri della UE ha approvato sanzioni contro i “responsabili di violazioni dei diritti umani, della violenza e dell’uso eccessivo della forza”, sotto forma di congelamento dei loro conti bancari detenuti in banche europee. Nello spazio di appena un paio di ore, lo stesso giorno, come una risposta meccanica rappresentanti del “Partito delle Regioni”, oligarchi e burocrati hanno preso le distanze da Yanukovich, timorosi di essere associati alle sue responsabilità politiche e soffrirne le conseguenze economiche.
Il giorno seguente, Venerdì 21, sotto gli auspici dei ministri degli esteri di Francia, Germania, Polonia, e’ stato firmato un accordo tra il presidente Yanukovich e i leader dell’opposizione parlamentare (Klithsko, Yatsenyuk, Tyahnybok): prevedeva un governo di transizione ed elezioni presidenziali anticipate (ma solo di un mese: da gennaio 2015 a dicembre 2014). La sera stessa si è vissuto un altro momento drammatico della crisi. La piazza di Maidan ha di fatto rigettato, con le parole di un giovane membro dei gruppi di autodifesa di Maidan, l’accordo che avrebbe mantenuto Yanukovich al potere per tutto il 2014 e ne ha preteso le dimissioni entro le 10 di mattina del giorno seguente, minacciando di passare all’azione.
La frustrazione di una piazza che da sola ha saputo resistere al potere di uno Stato e al suo apparato repressivo si è espressa contro i leader parlamentari dell’opposizione, in parole cariche di tensione: “abbiamo dato ai politici la possibilità di diventare futuri ministri, presidenti, e loro non vogliono soddisfare la nostra unica richiesta: via i criminali“. Il giorno dopo, sabato 22, Yanukovich non era più a Kiev e il parlamento ucraino ha proceduto a cambiare la costituzione, con la maggioranza richiesta, ripristinando tra l’altro un sistema parlamentare al posto di quello presidenziale vigente.
Quello che è successo in questa settimana a Kiev ha prodotto l’esito forse migliore che si potesse sperare; la transizione sta avvenendo senza ulteriori violenze né regolamenti di conti (a dispetto di quanti pure in Italia amano raccontare che a Maidan ci sono i nazisti, sulla scorta della propaganda putiniana). Rimane aperta la questione di garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, perché la piazza è andata oltre agli accordi stipulati in sua vece dai governi europei, e ha realizzato in un giorno ciò che, per fare piacere a Putin, doveva succedere (forse) in un anno.
Forse a Kiev nessuno solo pochi giorni fa avrebbe potuto immaginare di celebrare così in fretta la fine del potere di Yanukovich.
Ciò che ha reso possibile questo esito sono state due cose: le sanzioni decise dalla Unione Europea; la resistenza e il sangue versato dai cittadini ucraini a Kiev. Senza la loro determinazione, durante i gelidi mesi invernali, a presidiare il centro della città, nulla di questo sarebbe stato possibile.
Ed è sorprendente la velocità con cui gli eventi si sono succeduti da quando giovedì 20 febbraio la Ue ha deciso sanzioni: il che non può che essere considerato con dolore, per le morti che sarebbero state evitate se i governi europei avessero agito con maggiore urgenza e coraggio.
Morire per l’Europa o morire per la UE?
La vittoria della “rivoluzione” di Maidan è nel segno dell’Europa, pure se l’Europa istituzionale è stata timida fino quasi all’ultimo e si è mostrata sorda agli appelli dei manifestanti di Maidan.
Ma questi uomini e donne quando dicono Europa, e quando chiedono il diritto di avere un futuro europeo per il loro paese, non pensano all’Euro, a Bruxelles o alla Banca Centrale Europea. Europa, a Kiev, è una parola che è impregnata di un senso politico, quale noi non siamo più in grado di percepire.
“Europa” a Kiev significa libertà, democrazia, stato di diritto, rispetto dei diritti dell’uomo. Significa che se vai a farti curare in ospedale non devi avere paura di essere rapito; e che se poi il tuo cadavere viene ritrovato in un bosco in mezzo alla neve, pieno di ferite, le autorità giudiziarie non chiudono il caso dicendo che sei morto per “ipotermia” (come è successo a Yuriy Verbytsky).
Significa che quando c’è un problema di ordine pubblico, il governo non prezzola a giornata dei bulli di quartiere per fare il lavoro sporco che non si vuole far fare alla polizia, tipo riempire di botte giornalisti non allineati (è il caso di Tetiana Chornovol).
Significa vivere in un paese dove il futuro e le opportunità di benessere non sono sistematicamente razziate dal governo a beneficio di una esigua minoranza vicina all’oligarchia – e per capire è meglio mettere le cose in prospettiva: nessun confronto facilone con la situazione italiana tiene: se in Italia siamo abituati a lamentarci perché i giovani vanno all’estero dato che non si trova lavoro, l’Ucraina ha vissuto l’emigrazione come un dramma vero, non per finta, in modo per noi non facilmente concepibile: dal 1993 al 2011 ha perso sette milioni di abitanti, ossia circa uno su otto.
Riattivare le energie europee
Le vicende di Kiev delle passate settimane sono un evento epocale per il popolo ucraino, che – come nel caso dell’Italia nell’Ottocento – unisce risorgimento nazionale e democrazia.
Forse proprio per questo e’ una questione che travalica i confini dell’Ucraina e interessa gli europei tutti, ovunque siano nel continente e ovunque siano pronti a cogliere questo messaggio.
“Care signore e signori, accettatelo: gli ucraini stanno lottando per noi tutti. Se credete che i cosiddetti “valori europei” siano acquisiti una volta per tutte, che siano qualcosa che potete comprare e possedere – vi sbagliate! (…) Non funziona così. I valori richiedono di essere difesi con la lotta. Non tutto può essere comprato”. Queste non sono le parole di un ministro, ne’ di un politico; sono le parole dello scrittore polacco, e dissidente pacifista, Andrzej Stasiuk.
Ci vorrà del tempo prima che il livello politico delle nostre società metabolizzi e accetti l’ampiezza di quanto è successo a Kiev. Perché’ la politica normalmente è solo reattiva, non creativa. Ed è per questo che sono i cittadini europei coloro nei quali riporre la speranza che quanto successo a Kiev sia capito: le persone possono fare la differenza, chiamatela “cittadinanza attiva” o come volete; ma la gente di Kiev ci ha mostrato che nulla è acquisito, ne’ la libertà ne’ la sconfitta. Ci ha mostrato che gli obiettivi si possono raggiungere senza bisogno di aspettare che si muovano i governi, ma molto può esser fatto da ognuno di noi, con la libertà che ha, coi mezzi che ha. Sia nei momenti drammatici ed epocali, sia nella quotidianità e nell’ordine.
Ci ha ricordato che al centro del progetto europeo c’è la persona, non gli stati, non i governi. E da lì dobbiamo ripartire, per dare un senso all’Europa, senza attendere che la facciano i governi nazionali (non la faranno mai): l’Europa siamo ognuno di noi, cittadini europei, e inizia ad esistere con le nostre scelte, col rifiuto dell’indifferenza, con le nostre azioni.
Marco Ferraro
marco-ferraro@live.it
@NelBluDipinto
Nota: Un dovuto ringraziamento a Mauro Voerzio per l’indispensabile aiuto fornitomi nel mio viaggio a Kiev.