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Si ricomincia a parlarne, seriamente. Associazioni, blog, gruppi su Facebook. Le donne italiane sentono prepotentemente il bisogno di agire, in maniera proattiva, per cambiare un sistema che le penalizza, da sempre.
La questione è multi sfaccettata e tocca non solo la qualità della vita delle donne e delle loro famiglie, ma anche la qualità della democrazia in cui stiamo vivendo. Una democrazia che deve necessariamente essere paritaria, espressione di una politica d’inclusione attiva, di partecipazione e rappresentanza.
Partecipazione a 360° nella vita politica, nella vita pubblica e in quella lavorativa. Che in Italia è limitata, ostruita, ostacolata, stritolata per una serie di motivi a volte esogeni, altre endogeni, che tra di loro interagiscono costituendo una maglia di difficoltà in cui le donne tendono a rimanere impigliate.
Tutti noi conosciamo la realtà delle donne lavoratrici, sempre in equilibrio precario nel tentativo di conciliare lavoro e vita privata. Una cultura lavorativa che, non basandosi su obiettivi e su un valido sistema di valutazione del merito, non valorizza la flessibilità positiva (telelavoro, part-time,..). Una quasi totale assenza di servizi alla famiglia (un esempio tra tutti, la scarsità di asili nido, anche interaziendali o comunque aperti e diffusi sul territorio), che vengono delegati al lavoro informale delle baby sitter e delle badanti. Un fisco cieco nei confronti di queste situazioni, che favorisce il lavoro nero al femminile e dall’altro lato non si propone come strumento atto a favorire l’occupazione delle donne.
Ai fattori esogeni e sistemici di cui sopra si aggiungono anche dei  fattori prettamente endogeni: su un articolo pubblicato dalla rivista Elle, Alessandra Perrazzelli, che lavora nello staff del CEO di Intesa San Paolo, dice una frase emblematica: “ Se io propongo una nuova mansione ad un mio giovane, lui mi parla soavemente di bonus, mentre la collega mi ringrazia perché ho creduto in lei. Sono io che le spingo a darsi un valore economico”.  E’ un atteggiamento molto diffuso tra le donne, che non premia nella società attuale. Le donne hanno la tendenza a sovraccaricarsi di responsabilità e impegni ponendosi degli standard molto elevati: “individualmente abituate ad arrangiarsi”, tendenzialmente non amano delegare. E, rispetto ad altri Paesi europei, in Italia tendono a scegliere di lasciare il lavoro per seguire la famiglia, poste in situazioni di inconciliabilità.  
A tutto questo, si aggiunge la perenne lotta contro il modello femminile imposto negli ultimi decenni agli italiani dai media, in particolar modo TV e pubblicità. L’argomento non è nuovo, ed è stato trattato molto bene da Lorella Zanardo con il documentario “Il corpo delle donne”. Eppure, nulla sembra cambiare, nulla sembra scalfire questo modello femminile assurdo. Davanti all’ennesima carrellata televisiva di donne procaci ed umiliate, dei loro corpi esposti e scrutati, della mercificazione di esseri umani femminili l’autrice si chiede: “perché non ci indigniamo?”. A cosa è dovuta questa rassegnazione? A questa domanda sono nati dei tentativi di persone normali,non solo donne,  di esercitare una cittadinanza attiva. Di denunciare le pubblicità offensive e riportare l’immagine femminile nel Paese ad una situazione di dignità (vedi il progetto Nonchiedercilaparola, casa di produzione video che intende raccontare il mondo “attraverso gli occhi delle donne con autenticità, ironia e leggerezza”); di esercitare il dovere di essere consumatore responsabile penalizzando le aziende che sfruttano in maniera becera il corpo delle donne e la loro sessualità esposta per vendere prodotti, molto spesso destinati alle donne stesse. Un paradosso a cui ci siamo, purtroppo, assuefatti.

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